Cinquant’anni fa di oggi era pure un giovedì. Mia madre mi disse: «Oggi mamma non ti manda a scuola. Non facciamo una festa, perché una grande l’abbiamo già fatta sabato scorso. Però mamma e papà ti fanno un regalo.» Così, mentre mio padre e mio fratello erano andati rispettivamente al lavoro e a scuola, mia madre mi condusse all’Upim, quello sull’Appia.
Fuori il maggio era caldo e odoroso. Compimmo un percorso che mi pareva antico. Quello che io e lei facevamo quand’ero davvero piccolissimo. Ma tutto stava profondamente cambiando, fuori e dentro di me. Di lì a breve avremmo infatti cambiato casa: dall’area urbana a una metropolitana, alle pendici dei Castelli. Con nuove scuole, nuove amicizie. E le strade si stavano riempiendo di umori inusuali. File di giovani variopinti transitavano spesso ininterrottamente e, entro qualche anno, sarebbero divenuti anche pregni di «una rabbia che ogni giorno va più forte». Quell’estate, probabilmente, Santino – insieme a dei rocchetti – avrebbe cantato dei propri giorni felici, certi alunni – devoti al sole – del concerto d’un mare senza una lei e alcuni nomadi – vagabondi, che non erano altro – di pugni di sabbia.
Dopo la salita traversammo la Latina, poi la Villa e quindi la consolare. Tornai a casa con quella che mi pareva una magnifica scatola di giochi di prestigio. Mi avrebbe fatto compagnia, come già un’altra, in quel periodo di forti cambiamenti.
A nostra insaputa, a quattrocento chilometri di distanza, una dolcissima monella con le trecce, le guance tonde e rosee, la gonnellina e i sandaletti da mare, alternava i giuochi da capobanda – con le amiche e la sorella, nei vicoli – all’accudire e coccolare il fratellino nato qualche mese prima quando, per l’impressione alle urla e al pianto di quello, aveva nascosto la testa sotto la giacca del padre. Sarebbero dovuti trascorrere ancora oltre sedici anni, prima di conoscersi.
Perché anche cinquant’anni fa, di oggi, era pure un giovedì.
[10 maggio 2018]