Io scrivo in quanto innamorato, tra le altre cose, della Storia della Letteratura, dei suoi cambiamenti attraverso le epoche, dei testi come testimonianze dei problemi e dei quesiti, spesso irrisolti, attorno a cui certi uomini hanno pensato, agito, immaginato e in cui, molti di noi, possono sempre ritrovarsi. In tal senso, per me, scrivere significa – con tutti i limiti del caso – reimmergermi in un Main-Stream di temi sempiterni, pur aggiornati dalla contemporaneità e dalle tecnologie. Pertanto il mio interesse, tanto di lettore che di scrittore, è rivolto alla Narrativa – mi si perdonino le espressioni – de jure o propriamente detta, escludendo quella di genere, vale a dire Fantasy, Horror, Gialli, Noir, Thriller… generi appunto che, seppure in alcuni casi danno origine a prodotti letterari di buona fattura – penso al E poi non rimase nessuno (I dieci piccoli indiani) di Agatha Christie -, personalmente non trovo di mio interesse in quanto li avverto sorta di nicchie, casi particolari, fughe dalla quotidianità della vita e del proprio tempo con cui, viceversa, chi scrive dovrebbe confrontarsi.
Il discorso indiretto libero: sua origine e forma base.
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Nella foto: Scrivania di scrittore, prima dell’avvento capillare dell’IT [Fabio, 1991]Si era staccato dal computer. Aveva completato un’altra parte significativa della revisione del suo romanzo. Migliorando la forma. Aggiungendo elementi. Rendendo la narrazione più fluida. Volgendo le troppe ipotassi ciceroniane in paratassi senechiane. Perché sapeva bene che non stava scrivendo saggistica ma narrativa. E sentiva di aver compiuto un lavoro proficuo. Si sentiva soddisfatto. Pieno di un senso di gratificazione. Come un artigiano che ha svolto il proprio lavoro. Un falegname. O un elettricista. Uno scultore. O un coltivatore diretto, che ha bene arato il suo orto e raccoglierà i frutti della terra.
Poi pensò a quali frutti. A quale terra. Pensò che quel lavoro era buono – decisamente – per lui. Perché ne aveva bisogno. Aveva bisogno dello scrivere, come del respirare. Come del bere. O dormire. Ma cosa era – quel suo lavoro – in confronto alla totalità della vita? Alle genti del mondo? Alla storia? Alle esperienze di ciascuno?
Ognuno – giustamente – poteva scrivere il proprio romanzo. E molto spesso accadeva.
Pensò alla pletora di esperienze narrative che ogni giorno si svolgevano nel mondo. Che avevano luogo nel mondo. Quotidianamente.
Quale pretesa che la sua esperienza narrativa – che quel suo romanzo, una volta completata l’ennesima revisione – fosse da preferire a migliaia o milioni di altre.
Perché un eventuale editore avrebbe dovuto accordargli una preferenza? Un qualche positivo criterio di selettività?
“Ora i tempi si sa che cambiano / passano e tornano tristezza e amore / da qualche parte c’è una casa più calda / sicuramente esiste un uomo migliore”, rimava Francesco alla sua Renoir.
“Sicuramente esiste uno scrittore migliore”, disse a sé stesso. “Probabilmente moltissimi”, aggiunse.
Ma la sua esperienza… quel narrare di quelle cose, di loro, di lei, di quelle generazioni, di quelle epoche, di quei mali, di quelle nevrosi, di quelle anomalie esistenziali…
Si rimise seduto al computer per portare avanti di un altro po’ l’ennesima revisione del suo romanzo.
[Fabio, 02 febbraio 2019]
Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)
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