Duro, ruvido, asfissiante, metropolitano, angoscioso, cinico, distratto, brutale… sono questi alcuni degli attributi che possono applicarsi a Burning – L’amore brucia, film del 2018 (in Italia uscito il 19 settembre 2019), del coreano Lee Chang-dong, ispirato a un racconto dello scrittore giapponese Haruki Murakami (che risulta come soggettista).
Si ritiene che il film non sia un capolavoro, tantomeno di originalità, la trama basandosi sul consueto triangolo di lui, di lei e dell’altro: un esempio pregresso, a caso, è Storia d’amore, 1986, di Francesco Maselli, pur avente esiti differenti; più manifestamente, in quanto anche citato dal protagonista, il maggiore romanzo di Francis Scott Fitzgerald, quel Grande Gatsby la cui figura domina e aleggia per buona parte del tempo dopo l’inizio. Ma sappiamo che, in questi casi di trame notorie, più importante del contenuto abituale sono certo la forma e il linguaggio. E il film è molto ben narrato e girato, con una magnifica fotografia che alterna campi lunghi a primi piani espressivi e poetici.
Sullo sfondo di una megalopoli, la capitale della Corea del Sud, si alternano caotici spazi urbani e suburbani – con atmosfere, da subito, fastidiose e opprimenti – ad ameni scorci agresti, nel contrasto di colori, luci, oscurità, tramonti, lasciando i protagonisti sospesi tra passato e presente, fra scomode eredità caratteriali d’un padre troppo ingombrante affetto da disturbi del comportamento e una madre fuggita, fra abiti di lei bruciati e minacciosi odierni falò di serre, fra le morbide promesse d’una compagna di scuola – allora brutta ma adesso cambiata e seducente – e conseguenti appassionate fantasie. Il protagonista Jong-su, scrittore in erba che ha da poco concluso l’università e gli obblighi di leva, si trova così a confrontarsi con un mondo a lui limitrofo ma tanto sconosciuto. È un mondo che affascina, richiama, assorbe e ottunde la mente dei più deboli, di coloro che riflettono sui loro umili trascorsi e da cui, nel presente, sentono di voler a loro volta fuggire.
Storia di formazione? Forse, ma neanche troppo. È, semmai, la lotta – sociale?, ci si chiede, nella misura in cui i due protagonisti maschili possono essere assunti come emblemi di più ampie collettività planetarie – contro una torbida e ostentata affezione di onnipotenza e onnnipresenza – il capitalismo, che anche nel Sud Corea vorrebbe ergersi a spontaneo fenomeno di natura? -, fintamente ottenebrata da giustificazioni appunto pseudo-naturalistiche. È questa malevola affezione che tende a consumare – inconsapevolmente o meno, per due dei tre protagonisti – anche gli affetti più puri e davvero naturali, come gli slanci avvertiti ma frenati. Tutto ciò avviene nello spazio breve d’una risata che, come detto all’inizio, caratterizza il film, il suo tono duro, cinico, distratto.
Il procedere verso il climax finale, anticipato dai sapienti turning-point, fra ipotetiche letture e tentate intuizioni della realtà, é d’uopo, è d’obbligo, è maestoso.
È tragico.
[Fabio Sommella, 21 settembre 2019]
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