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Trasversalità, contaminazioni culturali… di Fabio Sommella
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Davvero perplesso, financo offeso, rifletto.
Ormai da tanto tempo – decenni? – non faccio distinzione “nazionale” tra la musica di Puccini e quella di Mozart, la canzone di De André o di Paul Simon, fra il cinema di Fellini o di Bergman, l’attorialità di Totò o di Chaplin… amandoli io tutti, indistintamente, come opere d’arte e produzioni del genio umano, dei figli di questo pianeta.
Viceversa penso, vedo, sento, avverto, percepisco… come, nella coscienza comune e pubblica, il dictat (!?) di quel tal attuale ministro di questo governo pesi al punto da impedire a tanti, pena millantate multe, di pronunciare – in maniera, ad esser generosi, davvero ridicola – termini anglofoni o d’altra lingua “non nazionale”, in nome di non so quale preteso desueto purismo linguistico e culturale, dimenticando – il ministro, il governo, nonché coloro che li hanno votati – che l’interculturalità (leggasi L’instaurazione e il mantenimento di rapporti culturali come forme di dialogo, di confronto e di reciproco scambio di conoscenze tra paesi o istituzioni o movimenti diversi.) è insita nella vita e nel Mondo Futuro, al di là delle ridicole pretese barriere politiche, specie per chi ha formazione transdisciplinare, lavora con i computer, ha lavorato nell’IT, naviga su internet e studiando, anche l’antropologia culturale, si è sollevato dagli infimi provincialismi di cui è intrisa la loro mente.
Signor ministro, ha mai sentito parlare di Melting Pot?
Una risata vi seppellirà
A riguardo, oltre alla simpatica locandina qui sotto (ma gli esempi sono naturalmente molteplici), si veda anche qui e qui.
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In una dimensione tanto meta-narrativa che meta-critica, scenario spesso proprio degli incontri impossibili, Anna Vasta – già affermata poetessa di acuta e incisiva sensibilità, nonché pensatrice di indubbio pregio intellettuale e culturale – ambienta [Anna Vasta, Ultima stazione, in Salvatore Stefanelli (Ed.), Le improbabili, 2023] un pregnante dialogo immaginario tra un padre e una figlia, pur simbolici, nello specifico Lev Tolstoj e una delle sue più apprezzate creature letterarie, vale a dire quell’Anna Karenina che, da quasi centocinquant’anni, affascina e seduce tanto la critica letteraria che la filmografia.
Se anche Anna Vasta sottolinea la convergenza del destino di padre e figlia in quelle pur differenti stazioni ferroviarie che segneranno, tragicamente, gli esiti di entrambi, nel preambolo di questo meraviglioso incontro, ma soprattutto nel cuore del medesimo, ne disegna e ne tesse le forme e gli orditi cesellando il quadro d’insieme con finissime trame critiche e con ulteriori dettagli che, al di là della bellezza intrinseca, esprimono la recondita intesa che, caratterialmente, lega il padre alla figlia, lo scrittore al personaggio, il demiurgo alla propria creatura.
Magnifico è leggere la lunga digressione che la Vasta dedica alle atmosfere drammaturgiche tolstoiane filtrate attraverso la paesaggistica e le ambientazioni russe ottocentesche: “Le immense incolori distese di neve, le betulle spoglie, la luce fioca dei tramonti e il gorgoglio fumante del samovar. Poi le prime crepe nei laghi gelati, i rivoli d’ acqua smeraldina che luccicavano tra i ghiacci. Era il disgelo”. Ma ciò è l’indispensabile background che la poetessa e scrittrice imprime al suo emblematico ed elucubrante racconto breve per sostenere altri significati: l’intimo rapporto che sorregge padre e figlia simbolici, nonché i destini di molti, certo dei medesimi ma, non ultimi, anche quelli di eventuali lettori.
Se con l’altra immensa eroina della propria narrativa – l’irresistibile, per molti di noi lettori soprattutto maschili, Nataša – il Maestro della letteratura russa era stato magnanimo, consegnandola infine a un destino di caldo tepore famigliare a fianco di uno dei suoi maggiori alter-ego – quel Pierre Bezuchov, personaggio sempre in bilico fra opposte sorti e tensioni nonché pieno rappresentante, insieme al principe Andrej e a Konstantin Levin, dei tormentosi dubbi esistenziali dello scrittore – Tolstoj, con “Annuska” Karenina, inizia in qualche modo a preconizzare anche la propria tragedia. Anna Vasta, nel proprio racconto, attesta questa consapevolezza quando il conte Tolstoj, rivolgendosi alla Karenina, sottolinea che “non potevo cambiare la tua storia e inventarmi per te amori felici, se mai esistono. E comunque non erano nella mia vena.”
Ciò sarà infatti anche per i protagonisti di altre opere come La morte di Ivan Il’ič o Sonata a Kreutzer.
È questo, ci segnala Anna Vasta, l’intimo rapporto che accomuna la protagonista Anna Karenina con il suo creatore; ma anche, aggiungiamo noi, con le altre successive creature letterarie, nonché con molti lettori che hanno amato e amano questi sontuosi affreschi di vita pur romanzata: il conflitto, fino alla rottura estrema comprendente il sacrificio e la rinuncia a ogni forma di esistenziale accondiscendenza, verso le convenzioni e gli obblighi della società del proprio tempo. È in tale ottica che Anna Vasta, quando Anna Karenina si rivolge al conte Tolstoj, le fa dire: “Fui messa al bando dall’ ipocrita, moralista, corrotta società pietroburghese per la mia storia con Alekeij. Voi conoscevate bene quel mondo iniquo e, per quanto uomo di autentici principi cristiani, non avete puntato il dito contro l’adultera.”
Cose dell’Ottocento? Superate? Ovviamente no, o comunque, pur in altra foggia e trasformate dalle diverse culture del tempo e dei luoghi, certo non solo.
Pertanto lode ad Anna Vasta per questo mirabile impossibile dialogo fra un padre e una figlia, fra un Padre e i suoi figli lettori, fra un padre e i suoi più riposti conflitti irrisolti di Uomo.
[Fabio Sommella, 8 aprile 2023]
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“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” è Soldati, una delle liriche più brevi di Giuseppe Ungaretti che, quando era sul fronte, durante la Grande Guerra – insieme, tra gli altri, anche ai miei nonni, entrambi del ’93 (del XIX ) – spinto dalla pressante tematica cosciente della precarietà della vita in quel contingente contesto, probabilmente ispirò questi suoi versi parafrasandoli da quelli di Mimnermo, noto poeta greco pre-classico, “pessimista”, che era vissuto in Grecia tra il VII e VI secolo a.C.
In seguito, prima e dopo, altri poeti hanno ripreso le medesime tematiche, in varie forme.
Mimnermo scriveva “Siamo come le foglie”, comparando la condizione umana a quella delle fronde degli alberi che, in autunno, si distaccano dai rami e vengono abbandonate dai medesimi, morendo.
La prima volta che lessi questi versi del poeta pre-classico era sul finire dei ’70. Essi erano in epigrafe a un trattato di chimica del professor Luciano Caglioti: I due volti della chimica. Rimasi piacevolmente colpito circa come, un eminente scienziato, portasse a suffragio o a introduzione o a testimonianza delle proprie argomentazioni il testo lirico di un poeta dell’antica Grecia.
Col tempo ho poi imparato, come sosteneva la nostra docente di Letteratura del Liceo, che non esistono “due culture” – e, se esistono, sono solo nella testa di persone intellettualmente pigre – ma esiste un approccio olistico e integrato, di reciproco supporto tra forme di pensiero solo apparentemente disgiunte e diverse. Infatti, qualche anno dopo, scoprii sempre con piacere che i capitoli del trattato di Microbiologia erano preceduti da epigrafi pure “classiche” (che so: i versi delle satire di Giovenale!) o, ancora tempo dopo (anni ’90), i capitoli del manuale del Database di ORACLE 6, della Oracle Corporation, erano anche preceduti da sontuose ed eminenti citazioni letterarie e teatrali: tutto ciò a significare, simbolicamente o di fatto, l’intimo parallelismo e connubio tra le formae mentis scientifico-tecniche e quelle, cosiddette, letterario-umanistiche.
Ieri c’è stato, nuovo e terribile flagello, il terremoto in Turchia e in Siria, con ripercussioni, notevoli e avvertibili, in molte altre aree del continente dell’Eurasia, Nord e Sud. Si contano già migliaia di morti. E allora viene spontaneo un elementare pensiero.
In una dimensione – planetaria – ormai così fragile e labile come quella che riguarda tutti i 7 o 8 miliardi di umani che popolano questa briciola infinitesima di frammento d’universo che è la Terra, alcuni di noi continuano a farsi guerra come nei secoli passati? Con armi che, oltre a uccidere, non possono certo far bene ai già precari equilibri del pianeta. Alle sue faglie già estremamente critiche.
SIamo come le foglie sugli alberi autunnali.
E acceleriamo i nostri autunni!
[Fabio Sommella, 06 febbraio 2023]
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In qualità di abbonato, io, a Repubblica Online, leggo la Prima Pagina, in NewsLetter, di Maurizio Molinari e – come da sempre mi accade fin da quando, allora poco più d’un ragazzino, leggevo il Messaggero che mio padre, alla sera, portava a casa – avverto un inevitabile capogiro di fronte alla varietà e all’imponenza, spesso funesta, delle notizie dell’attualità provenienti dal Mondo: “la svolta sull’invio dei carri armati per l’Ucraina”, con “il via libera definitivo della Camera italiana al decreto Ucraina” che “proroga al 31 dicembre 2023 la cessione da parte di Roma di materiali militari a Kiev”; “Il Bollettino degli scienziati atomici” secondo cui la “fine del mondo” è ora “ad appena 90 secondi dalla simbolica mezzanotte che indica il traguardo dei tempi”; la conferma dello “sciopero dei benzinai” per cui gli “impianti di rifornimento carburanti rimarranno per lo più chiusi – compresi i self service – per 48 ore consecutive”; la notizia che nei “giorni caldi della giustizia il presidente della Repubblica Sergio Mattarella difende la magistratura finita nel mirino del ministro Carlo Nordio”; le “Acque agitate a Roma in Fratelli d’Italia“, per cui la “premier e leader commissaria la federazione cittadina scontrandosi con il suo vecchio mentore”; “la fenomenologia di Salvatore Baiardo”; il racconto de “l’Agnelli americano”, laddove – sottolinea il giornalista – “a vent’anni dalla sua morte, il ricordo di ‘Gianni’ – qui a New York nessuno lo chiama l’Avvocato – sia sempre vivo, affettuoso, nostalgico”; “le candidature per gli Oscar 2023” che “premiano il cinema delle grandi storie.”
Insomma: di fronte all’ampiezza e alla numerosità delle informazioni che ci sovrastano, la mente – il cervello? – non può che vacillare.
Sarà forse per questo che la mia mente, nella congerie di tali e tante notizie, imbocca una strada a latere, quasi in disparte, rifugiandosi – sorta di novello o perenne Elogio della Fuga di Henri Laborit – in una dimensione sovratemporale, di difesa.
Infatti il ventennale della morte di Giovanni Agnelli – il ricordo di ‘Gianni’, citato nella suddetta Prima Pagina – lascia affiorare nella mia memoria la dichiarazione in TV di un intervistato, presso il Lingotto di Torino, all’indomani del decesso dell’Avvocato; proprio in quell’occasione, qualcuno aveva sentenziato: “È morto l’ultimo Principe del Rinascimento!” Oggi non ritrovo la dichiarazione precisa ma solo qualcosa di similare, tra cui quanto riportato qui.
Altrove, viceversa e precisamente qui, trovo una decisa critica, indicata come erronea e fallace, a questa immagine “rinascimentale”, sorta di simbolico e contemporaneo AntiRinascimento.
Ma non è questo il punto, perché – stavolta senz’altro a ragione – mi viene subito in mente la dichiarazione di Nino Manfredi all’indomani della morte di Totò: “È morta l’ultima delle grandi maschere della commedia dell’arte”.
E allora penso a come e a quanto, il nostro comune sentire di persone della Modernità, o Post-Modernità, sia legato e agganciato strettamente – in modo diretto o indiretto, consapevole o inconsapevole, cullandone amorevolmente i criteri e i dettami comparativi – alle memorie storico-culturali: nei casi di Agnelli e Totò rispettivamente il Rinascimento, vero o presunto tale, e la Commedia dell’Arte, probabilmente più aderente alla comparazione proposta; ciò laddove le eredità, culturali, di queste fasi storiche, sebbene lontane e ultrasecolari, pur subliminalmente si dipanano nel tempo, continuandosi, perpetuandosi e giungendo fino alle nostre coscienze.
E infatti penso a quando personalmente, alcuni anni fa, ho ipotizzato un intimo – pur sotterraneo – nesso fra la rappresentazione della donna nella lirica due-trecentesca da una parte e, dall’altra, la rappresentazione della medesima in certa raffinata canzone d’autore.
Se gli esempi del parallelismo, vigente tra forme dell’attualità e forme artistico-culturali storiche, potrebbero essere ulteriori (ma ci fermiamo qui e le tralasciamo, almeno per ora 😊), va altresì rimarcato un semplice fatto: le nostre Coscienze Collettive, di moderni e/o post-moderni uomini del XX e del XXI, sono incontrovertibilmente e intimamente connesse alle nostre Memorie Collettive Culturali, le prime facendo uso continuo, consapevole o meno, delle seconde.
E questo – a dispetto di ogni capogiro e vacillar della mente di fronte alla varietà e all’imponenza delle notizie dal Mondo, spesso funeste e ignobili – mi fa star inspiegabilmente bene, in qualche modo e misura lenendo il cruccio, il dolore, la paura; relativizzandoli, forse!
[Fabio Sommella, 25 gennaio 2023]
In merito alla analisi psicologica delle origini del nazismo, come caso emblematico e fenomeno su larga scala di influenza sociale, la professoressa e ricercatrice Chiara Volpato fa riferimento a tre teorie psicosociali: la teoria del Conflitto Oggettivo di Sherif; quella dell’Identità Sociale di Tajfel; la teoria delle Rappresentazioni Sociali di Moscovici.
Secondo Sherif, 1961, discriminazione e atteggiamenti negativi deriverebbero dalla percezione di conflitti di interesse, quindi dipenderebbero da ragioni oggettive e realistiche. In tal senso Sherif sostiene che la proposta hitleriana avrebbe enfatizzato la presenza di conflitti di interessi tra Ebrei e Tedeschi, rafforzando così la percezione di incompatibilità degli obiettivi materiali.
Tajfel, 1981, afferma che la discriminazione e il favoritismo per l’ingroup derivano unicamente dal bisogno di valorizzare la propria identità sociale attraverso il confronto tra il proprio e altri gruppi. In base a ciò, quindi, la necessità di una propria identità sociale positiva, sottenderebbe i rapporti fra gruppi. Questa teoria non è in conflitto con quella di Sherif ma, semmai, le due sarebbero complementari.
La teoria delle rappresentazioni sociali di Moscovici, 1961, 1976 e 1989, afferma che le rappresentazioni sociali sarebbero grandi sistemi di valori, idee, pratiche le quali fornirebbero un ordine per l’orientamento sociale e faciliterebbero la comunicazione fra persone. Per Moscovici sarebbe estremamente importante il concetto di ancoraggio, processo per il quale le nuove idee, che tentano di prendere piede nella società, si avvantaggerebbero proprio del loro ancoraggio, in tal modo superando eventuali resistenze, a vecchi schemi e vecchie idee. È in tal modo che si spiegherebbe il cosiddetto anti-tempismo hitleriano e il successo che tale anti-tempismo riscosse negli anni ’30, epoca in cui pressoché ogni famiglia tedesca possedeva una copia del testo di Hitler, testo che profondamente era entrato nel tessuto sociale tedesco svolgendo opera di profonda persuasione.
La teoria delle Rappresentazioni Sociali di Moscovici sostiene quindi che Hitler avrebbe ancorato i propri costrutti a schemi preesistenti, basati sull’antisemitismo e lo storico nazionalismo pangermanista. A riguardo di quest’ultimo è, pur brevemente, indicativo quanto alla voce pangermanismo è riportato nella enciclopedia Treccani [http://www.treccani.it/enciclopedia/pangermanismo/]: “Movimento il cui scopo era l’unificazione di tutte le genti di lingua tedesca. Sin dal 1848 era sorto nel Parlamento di Francoforte un contrasto sulla soluzione da dare al problema unitario fra i Piccoli Tedeschi (Kleinedeutsche), che auspicavano l’unificazione sotto la direzione della Prussia con l’esclusione dei Tedeschi soggetti all’Impero asburgico, e i Grandi Tedeschi (Grossdeutsche), che volevano l’unificazione sotto la guida degli Asburgo. Uscito sconfitto, il programma grande-tedesco rinacque verso la fine del 19° sec. con la costituzione dell’Alldeutscher Verband e dell’Alldeutsche Vereinigung contro le minoranze alloglotte nell’Impero tedesco e austriaco. Si ebbe anche un p. dottrinale e razzista che dalla proclamazione dell’ineguaglianza delle razze giungeva alla esaltazione di un’unica razza, pura e perfetta, nella quale si volle identificare quella germanica. Antesignani di tale dottrina furono il conte J.-A. de Gobineau e H.S. Chamberlain. Delle loro idee si nutrirono il nazionalsocialismo e il suo teorico A. Rosenberg.”
Un connubio, solo in parte contrastante e contraddittorio e per molti versi unificante e anticipante le tre teorie, si può leggere anche nella interpretazione che, della psicologia nazista e delle sue origini, nel 1941 aveva dato Erich Fromm (1900-1980) all’interno del suo testo, cardine anche per tutta la sua successiva produzione, Fuga dalla libertà. Questo testo, incentrato sulla conformistica rinuncia dell’uomo moderno alle proprie responsabilità morali e sociali, si pone come linea di demarcazione tra la produzione del Fromm giovanile e quello della maturità. Formatosi intellettualmente sulla triade Talmud – Marx – Freud, integrata dai contributi della Scuola di Francoforte, Fromm in Sul metodo e il compito di una psicologia socio-analitica del 1932 “approfondisce il nesso fra struttura istintuale e struttura economica” [Erich Fromm, Il linguaggio dimenticato, Bompiani, 1983, pp. 250-251].
Senza pretendere, in questa sede, di ripercorrere tutta l’articolata e profonda argomentazione che Fromm in Fuga dalla libertà formula relativamente alla psicologia del nazismo (si fa qui riferimento alle pp. 181-206 dell’edizione del 1981 pubblicata da Edizioni di Comunità), si riportano alcuni estratti ritenuti salienti e a cui seguirà un tentativo di sintesi e connessione anche con le tre teorie di Sherif, Tajfel e Moscovici.
“Il nazismo è un problema psicologico, ma anche i fattori psicologici vengono influenzati dai fattori socio-economici; il nazismo è un problema economico-politico ma la sua presa su un popolo intero dev’essere spiegata dal punto di vista psicologico” [p. 182]
“… ad aggravare la situazione intervennero, oltre a questi fattori economici, dei fattori psicologici. La sconfitta bellica e il crollo della monarchia furono una prima ragione didisorientamento psicologico. La monarchia e lo stato erano stati la solida roccia su cui, psicologicamente parlando, il piccolo borghese aveva costruito la sua esistenza; … ” [p. 187]
“La sconfitta nazionale e il trattato di Versailles divennero i simboli su cui si trasferì la frustrazione reale, che era quella sociale. Si è detto spesso che il trattamento fatto alla Germania nel 1918 dai vincitori è stato una delle ragioni principali dell’affermazione del nazismo. Questo giudizio richiede dei chiarimenti. (…) Il risentimento contro il trattato aveva le sue radici nella classe media inferiore; il risentimento nazionalistico era una razionalizzazione, che proiettava l’inferiorità sociale sul piano nazionale.
Questa proiezione è del tutto evidente nella vicenda personale di Hitler. Egli era il tipico rappresentante della classe media inferiore. Una nullità senza prospettive o possibilità.” [p. 189]
“Queste condizioni psicologiche non sono state la «causa» del nazismo. Hanno assicurato quella base umana senza la quale esso non avrebbe potuto svilupparsi,ma l’analisi dell’intero fenomeno dell’ascesa e della vittoria del nazismo deve occuparsi delle condizioni strettamente economiche e politiche oltre che di quelle psicologiche.” [p. 190]
“Il nazismo ha risuscitato la classe media inferiore psicologicamente, mentre procedeva alla distruzione della sua precedente situazione socio-economica” [. 192]
“… la personalità di Hitler, i suoi insegnamenti e il sistema nazista esprimono in forma esasperata la struttura di carattere che abbiamo definito «autoritaria»” e “proprio per questo fatto egli ha esercitato una potente attrattiva su quei settori della popolazione che più o meno avevano la stessa struttura di carattere” (…) “L’essenza del carattere autoritario è stata descritta come la simultanea presenza diimpulsi sadici e masochistici. Per sadismo abbiamo inteso l’aspirazione ad un potere illimitato su un’altra persona, più o meno commisto alla distruttività; per masochismo, l’impulso a dissolversi in un potere irresistibile e a partecipare della sua forza e della sua gloria. Entrambe le tendenze si ricollegano all’incapacità dell’individuo isolato di reggersi da solo, e al suo bisogno di un rapporto simbiotico che vinca questa solitudine.” [p. 193]
“… non è stata solo l’ideologia nazista a soddisfare la classe media inferiore; la politica ha realizzato in pratica ciò che l’ideologia prometteva. È stata creata una gerarchia in cui ognuno ha sopra di sé qualcuno a cui sottomettersi, e ha sotto di sé qualcuno verso cui sentirsi potente; colui che sta in cima, il capo, ha il Destino, la Storia, la Natura sopra di sé come potere in cui sommergersi. Perciò l’ideologia e la prassi nazista soddisfano i desideri che scaturiscono dalla struttura di carattere di una parte della popolazione, e danno un indirizzo e orientamento a quelli che, pur non provando piacere a dominare e a sottomettersi, si erano rassegnati e avevano rinunciato alla fede nella vita, nelle proprie decisioni, in tutto. ” [pp. 204-205]
“La fuga nella simbiosi può alleviare per un po’ la sofferenza, ma non la elimina. La storia dell’umanità è la storia dello sviluppo dell’individuazione ma è anche la storia dello sviluppo della libertà. L’aspirazione alla libertà non è una forza metafisica, e non si può spiegarla con la legge naturale; è il risultato necessario del processo di individuazione e dello sviluppo della civiltà. ” [p. 206]
Cercando di sintetizzare quanto estratto dal pensiero di Fromm in merito alla psicologia nazista, tenendo comunque ben salde le radici e motivazioni storico-economiche, si deve dire che simbiosi si pone come antitesi a libertà e che quest’ultima si affianca parallelamente all’individuazione già junghiana; e che, come nello psicologo svizzero vigeva la dialettica estroversione-introversione, nello psicologo di Francoforte vigeva la dialettica, cruciale per l’origine del nazismo e dell’influenza sociale di Hitler, contingente alle fasi storiche di celebrazione dello spirito identitario pangermanista, sadismo-masochismo, nelle chiarissime accezioni che Fromm formula.
A questo punto l’aderenza del pensiero di Sherif, di Tajfel e Moscovici, pertinentemente alle origini psicologiche del nazismo, non appare lontana da quella, pur certamente qui espressa in modo più strutturato, di Fromm. La “percezione di conflitti di interesse”, indicata da Sherif, è ovviamente presente già in Fromm; così come il “bisogno di valorizzare la propria identità sociale attraverso il confronto tra il proprio e altri gruppi”, trova ampio spazio nelle argomentazioni, pure ripetute da Fromm e che qui sono state omesse per ovvi motivi di spazio, che Hitler compie relativamente a tedeschi, ebrei, ecc. .
Probabilmente è rispetto alle rappresentazioni sociali di Moscovici che il pensiero frommiano può apparire, e probabilmente sostanzialmente è, antitetico: laddove infatti Moscovici pone l’accento sul processo di ancoraggio (processo, in sé, in molti casi sicuramente fondato e fondante) allo “storico nazionalismo pangermanista”, di cui pur rapidamente si è cercato di sottolineare l’ampia portata sovra-secolare (essendo ascrivibile almeno alla seconda metà del XVIII secolo con la costituzione della Prussia in stato nazionale e proseguito poi con sempre più ampie trasformazioni e capovolgimenti fino alla Grande Guerra), Fromm viceversa stigmatizza come e quanto il “risentimento contro il trattato aveva le sue radici nella classe media inferiore”, quanto “il risentimento nazionalistico” in realtà fosse “una razionalizzazione, che proiettava l’inferiorità sociale sul piano nazionale”, laddove Hitler, secondo Fromm, “era il tipico rappresentante della classe media inferiore”; pertanto, in realtà nell’ottica di Fromm, se un qualche ancoraggio a vecchie idee di “nazionalismo pangermanista” Hitler avrebbe attuato, ciò sarebbe avvenuto non sulla scia delle medesime ma in maniera storicamente contingente e di comodo, il nazismo avendo sfruttato il proprio nulla identitario nonché la dialettica sado-maso dell’autoritarismo e della fuga nella simbiosi, tutti elementi antitetici alla libertà, alla individuazione e alla civiltà.
[Fabio Sommella, 26 luglio 2015]
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Anche in questi giorni del 2022, come già quando ho raccolto questi appunti nel luglio 2015, in cui tragedie nonché stucchevoli e misere celebrazioni di effimero potere occupano – in molti luoghi del mondo – le cronache dei media, forse può fare piacere (a me ha rasserenato) riflettere, pur molto sommariamente, sui temi del pensiero di uno degli indubbiamente maggiori Maestri del’900, temi raccolti nel corso della citata intervista, probabilmente l’ultima della sua vita.
NB: naturalmente sono responsabile di ogni eventuale imprecisione o errore interpretativo della magnifica intervista!
[Fabio Sommella, 03 novembre 2022]
Erich Fromm, nato nel 1900 e morto nel 1980, era divenuto psicanalista nel 1925 perché era figlio di una famiglia nevrotica e avvertiva, egli stesso, di avere vari problemi. Non si considerava un filosofo, non si sentiva uno specialista in molti campi; bensì una persona che aveva maturato delle conoscenze, anche imperfette e incomplete, ma in modo tale che solo la “combinazione di tutti questi fattori …”
Magnifiche, nell’intervista, le sue pause, prolungate, prima di iniziare a rispondere. Mi piace pensare che queste (personalmente ne sono persuaso!) non dipendessero solamente dall’attesa per la traduzione in tedesco, di quanto formulato dal giornalista italiano; bensì rispecchiassero il suo stile di vita, lo stile di chi ascolta e pondera prima di fornire una risposta, evitando la fretta; così, come la dolcezza profonda del suo sguardo, rispecchiavano il Nathan che Egli era, prima ancora d’essere un Maestro di pensiero. Solo in un’occasione, nel corso dell’intervista, Fromm interrompe deliberatamente il giornalista: ciò avviene quando quest’ultimo rievoca una tragica vicenda della giovinezza di Fromm, pertinente al suicidio di una giovane donna. In un’altra occasione, quando si parla di affetti personali, si vede Fromm che “corre”, con la propria mano (come per “soccorso”), ad afferrare quasi (ma poi rinuncia) la tazza (di pregevole fattura) di tè, o altra bevanda, che egli sorseggiava, di tanto in tanto, durante l’intervista.
Fromm consigliava di leggere Il matriarcato, di Bachofen, testimonianza, negata dalla cultura a lui contemporanea, di un’epoca e un luogo in cui avesse socialmente dominato la donna; ma non la donna “mascolinizzata”, come quella della sua (nonché attuale) contemporaneità, bensì la donna pienamente “femminile”. [NdR: anche l’antropologia culturale, dei primi decenni del 2000, decisamente nega l’esistenza, effettiva e reale, di fasi storiche dominate dal matriarcato, questo inteso nell’accezione di Bachofen e Fromm. Penso valga la pena cercare di leggere l’opera citata di Bachofen, al fine di verificare la veridicità, o fallacia, delle sue teorie!]
L’Umanesimo Socialista, di Erich Fromm, ha l’obiettivo dello sviluppo ottimale dell’uomo e della sua libertà. Fromm afferma che l’URSS, del suo tempo, fosse enormemente distante dal genuino pensiero di Marx e che, quest’ultimo, fosse stato di fatto bandito dalla società sovietica.
Fromm non reputava essenziale “seguire una religione” quanto, piuttosto, “vivere religiosamente”. Se avesse dovuto dire quale fosse la sua religione, avrebbe indicato il Buddismo: ma erano comunque troppe le differenze culturali.
Se avesse dovuto indicare delle letture, avrebbe consigliato la Bibbia, Marx, Tommaso D’Aquino.
Egli non si ritenne mai un uomo che avesse attuato un effettivo impegno politico: riteneva di non averne le capacità, sentendosi e definendosi un teorico; ciò a parte le attività pacifiste o i temporanei appoggi ai movimenti per il disarmo nucleare.
Le distanze prese, nel tempo, dai suoi colleghi docenti della storica Scuola di Francoforte (Horkeimer e l’involuzione borghese, da Fromm indicata; Marcuse e il suo aspirato ritorno alla dimensione infantile, piuttosto che la crescita indicata da Fromm; anche Adorno, in qualche misura), sono testimonianza delle divergenze intercorse e avvenute nel loro pensiero, malgrado le vicinanze nei primi anni ’30, prima dell’avvento del nazismo.
Fromm si emoziona alla domanda su Freud, per il legame che lo legava all’anziano maestro: ma risponde che l’uomo di Freud è “un uomo senza amore” e che solo nell’ultima fase del suo pensiero, con la polarità di amore e morte, Freud modifica la sua concezione.
Fromm giudica Groddeck il maggior psicanalista dopo Freud: di Groddeck ammirava la praticità, l’originalità, l’eleganza e gentilezza dello stile e del pensiero.
La malattia dell’uomo moderno, nonché della moderna società capitalistica, è considerare il profitto (economico/finanziario) il giusto metro del comportamento razionale. Fromm racconta (ma ciò è anche scritto in vari suoi testi) che, fin da bambino, pur essendo figlio di ebrei commercianti (da varie generazioni, molti rabbini), si chiedesse come potessero, tanti uomini, considerare la loro unica finalità, nella vita, quella di guadagnare denaro, guadagnarne il più possibile. Egli, fin da giovane, aveva dedicato la mattina di ogni giorno ad attività creative, non lucrative [Lo so: qualcuno dirà “problemi da ricchi!”]; la psicanalisi coi pazienti la svolgeva nelle ore pomeridiane. A riguardo, in tal senso, compie una profonda considerazione critica sui manager delle moderne aziende.
Infine, suscitando indubbia ilarità, racconta che un suo anziano parente (un nonno, mi pare fosse), persona estremamente colta, leggesse continuamente libri nella sua bottega di commerciante a Monaco di baviera; le letture per il suo anziano parente erano talmente importanti che, quando qualche avventore entrava nel suo negozio, questi lo trattasse male perché si sentiva interrotto nei suoi studi e che pertanto, in modo estremamente seccato, domandasse “Ma non avete un altro negozio in cui andare?”.
Le domande fondamentali, di Erich Fromm [e qui, esulando dall’intervista, mi riferisco a quanto presente in vari suoi testi], erano quale fosse il senso della vita e cosa ne faremmo, delle nostre vite, se non ci fossero problemi sociali ed economici!
[Fabio Sommella, Luglio 2015]
Da http://www.uninettunouniversity.net/it/cyberspazioforumnew.aspx?g=posts&m=51190#post51190
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In Psicologia Sociale la dissonanza cognitiva, che fu teorizzata da Leon Festinger, svolge per la psiche un affascinante ruolo di ricerca di stabilità che, consciamente o inconsciamente o, ancora, per rimozione o per dissociazione, operiamo al fine di sottrarci all’ostinato, o naturale, cambiamento del nostro agire o sentire, con la probabile finalità di mantenimento o evoluzione del nostro Sé in un possibile stato di equilibrio e anelata coerenza.
La dissonanza cognitiva può esser paragonata alla dissonanza in altri ambiti di conoscenza, specificamente quello musicale per il quale, il compositore e maestro Roman Vlad, sosteneva che essa fosse “motore dell’evoluzione musicale”.
A tutto ciò si affianca, stavolta in ambito squisitamente di psicologia sociale, il ruolo che, secondo Serge Moscovici, le minoranze svolgono nell’evoluzione sociale. L’evoluzione costante è, a parere di Moscovici, dovuta soprattutto all’influenza delle minoranze, da principio inascoltate e dissidenti, poi incidenti nell’evoluzione sociale.
Mi sembra possa avere importanza rimarcare che le minoranze, indicate da Serge Moscovici, svolgono un ruolo nel sociale analogo a quello che la dissonanza svolge nella cognizione; e che di nuovo, a questo punto, si potrebbe stilare anche una seconda proporzione: le minoranze stanno alla costante evoluzione sociale come la dissonanza, stavolta armonico-melodica indicata da Roman Vlad , sta nuovamente all’evoluzione musicale.
Pertanto potremmo dire che, decisamente, siano le note stonate, o quelle che in certe fasi storiche appaiono tali, – tanto socialmente quanto cognitivamente, quanto ancora musicalmente – a fornire energia al motore evolutivo in ogni ambito.
In questo scenario “gnoseologico”, forse non è marginale osservare che Festinger, pur nato a New York, era figlio di immigrati ebrei russi; Moscovici e Vlad erano entrambi romeni, il primo naturalizzato francese e il secondo naturalizzato italiano. Inoltre Festinger e Vlad erano entrambi del 1919 mentre Moscovici, poco più giovane, del 1925. Tutto ciò lascia intuire un similare analogo fervore intellettuale e culturale, epocale, originantesi dall’Europa dell’Est, macro-area per certi versi “minoritaria e dissonante”.
[Fabio Sommella, 03 novembre 2022, (rieditato da versione originaria del 1 giugno 2015, Stereotipi, Tajfel, Fromm – Dagli stereotipi all’Amore per la vita)]
Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)
Gli stereotipi spesso assolvono la funzione di giustificare uno stato di disuguaglianza tra gruppi sociali, stato di disuguaglianza che in tal modo si contribuirebbe a mantenere costante nel tempo.
Ciò risulta evidente anche prendendo in considerazione i due elementi cardine della Teoria dell’identità sociale di Henry Tajfel, teoria secondo la quale, nei gruppi sociali e più in generale nelle collettività umane, ciascun membro tenderebbe a differenziarsi dagli altri, favorendo inoltre in modo inevitabile il proprio ingroup. Sarebbe questo un meccanismo abbastanza ampio e universalmente diffuso.
Leggendo queste tutt’altro che improbabili e certamente attuali evidenze sociali – a tal fine basta confrontarsi con la Storia e con l’Attualità – non possono tuttavia non riemergere, nella mente di chi legge, le argomentazioni che, un altro autore senza dubbio di rilievo nell’ambito del pensiero sociale del XX secolo, quale fu Erich Fromm, ha riportato a più riprese in vari suoi scritti, specie dell’ultimo periodo (anni ’70).
Rammento infatti come in un suo testo, appartenente alle raccolte de L’amore per la vita o a La disobbedienza e altri saggi, Fromm sottolineasse la grande difficoltà di ogni essere umano di essere accogliente e solidale con lo straniero, ovvero verso e nei confronti di colui che non ha alcun elemento in comune, con noi o con il nostro gruppo di appartenenza.
Mi piace concludere con un paio di estratti da un altro importante testo, seppure precedente (1956), sempre dello psicologo di Francoforte: L’arte di amare. L’estratto che riporto è ovviamente in linea col concetto che ho espresso sopra e, in larga misura, lo comprende nonché lo anticipa, abbracciandolo e collocandolo in un contesto certamente più ampio.
«L’amore per una persona implica l’amore per l’uomo come tale. La “divisione del lavoro”, come William James la chiama, per cui un uomo ama la famiglia ma non sente niente per lo “straniero”, è sintomo d’incapacità d’amare. L’amore dell’uomo non è, come generalmente si crede, un’astrazione che viene dopo l’amore per una specifica persona, ma è la sua premessa, sebbene geneticamente la si acquista amando specifici individui.» [Erich Fromm, L’arte d’amare, Il Saggiatore, Ottobre 1980, pp. 77-78 ]
«Non esiste “scissione” tra l’amore per la propria gente e l’amore per lo straniero. Al contrario, la condizione per l’esistenza del primo è l’esistenza del secondo. Accettare questo principio significa apportare un cambiamento radicale nei propri rapporti umani. Mentre per la maggior parte della gente l’amore per il prossimo non è altro che ipocrisia, i nostri rapporti devono basarsi sul principio della sincerità. Sincerità significa non servirsi della frode e dell’usura nello scambio della merce e dei sentimenti. “Io ti do quanto tu mi dai”, in beni materiali come in amore, è la prevalente massima etica della società capitalistica.» [Erich Fromm, L’arte d’amare, Il Saggiatore, Ottobre 1980, p. 161]
Un attestato che certamente esula dalle pertinenze strettamente scientifiche della psicologia sociale ma che risulta un attualissimo monito di speranza, da parte di un Maestro del ‘900, “Affinché l’uomo prevalga”! J
[Fabio Sommella, 03 novembre 2022, (rieditato da versione originaria del 1 giugno 2015, Stereotipi, Tajfel, Fromm – Dagli stereotipi all’Amore per la vita)]
Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)
La maggior parte degli individui ha una preferenza per esperienze familiari, prevedibili e stabili; sperimentazione di sorta di facilità a confrontarsi col noto e col prevedibile.
Le persone generalmente realizzano questa motivazione alla coerenza adottando strategie d’azione capaci di confermare le convinzioni a proposito di sé ed evitando situazioni e interazioni personali capaci di contraddire le loro auto-concezioni.
In Psicologia Sociale, esaminando alcuni studi e lezioni sulla motivazione del Sé (Cfr. le Fonti bibliografiche in coda a questo articolo), emerge – si potrebbe dire in modo dirompente – la sistematica tendenza a esagerare le caratteristiche positive di sé; ovvero: gli individui realizzano una autopromozione a vantaggio della propria immagine.
Qual è il nascosto significato funzionale di questo fenomeno? (Dell’umana vanità?)
Questi studi attestano che “è proprio grazie a queste tendenze sistematiche, in favore del Sé, che il tono positivo e affettivo, del proprio vissuto, tende in qualche modo a mantenersi alto in termini di intensità e, le prospettive concernenti il futuro, si proiettano come favorevoli a livello di aspirazione”. Al contrario giudizi negativi metterebbero in crisi l’autostima delle persone e si genererebbe una situazione depressiva per le medesime.
Nel manifestarsi di questa tendenza auto-accrescitiva, pur se ciò implica una tendenza in qualche modo a barare, si riscontrerebbe un forte valore adattivo per la specie dal momento che tramite l’auto-accrescimento:
Inoltre convivendo con una propria immagine positiva le persone
Ecco così che, nella specie umana, nella sua cultura e storia (e chissà se anche in altre specie biologiche), verrebbe riscontrata l’utilità della bugia!
Un triste quadro, a seconda dei punti di vista, si evincerebbe, sulla scia di molti motti popolari o poetici: si pensi al “Meglio fingersi acrobati che sentirsi dei nani!”, come appunto poeticamente recitava Renato Zero qualche decennio fa; o “io penso positivo perché son vivo”, pur se il positivo non debba necessariamente coincidere con il barare circa se stessi. Esempi artistici, fino all’eccesso e al paradosso, possono rintracciarsi anche nel cinema; un esempio per tutti: Borotalco di Carlo Verdone.
In definitiva l’animale uomo segue la linea: “Inganniamoci e, se non proprio felici, saremo probabilmente in apparenza maggiormente sereni”; condotta che almeno alcuni politici devono aver fatto propria da lungo tempo.
[Fabio Sommella, 03 novembre 2022, (rieditato da versione originaria del 1 giugno 2015)]
Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)
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