La Cultura, serie di concettualizzazioni storicamente determinate in perenne trasformazione

Nella serata del 21 maggio 2024, in una fascia oraria ottimale (18-19:30), in una sontuosa sala del Palazzo Mattei-Paganica, sede dell’Istituto Treccani di Roma, sita in piazza dell’Enciclopedia Italiana 4, Pandora Rivista ha organizzato l’interessante dibattito intitolato Viaggio nella cultura: reti, forme e mappe di un mondo in trasformazione. Il dialogo, moderato dal direttore della medesima rivista Giacomo Bottos, ha visto come principali interlocutori Paolo Di Paolo, Loredana Lipperini e Giorgio Zanchini. In sala, tra il folto pubblico partecipante, c’era l’editore Giuseppe Laterza che pure è intervenuto con stimolanti riflessioni.

Va detto subito che l’evento, caratterizzato dal pregnante sottotitolo reti, forme e mappe di un mondo in trasformazione, non ha deluso affatto bensì è risultato estremamente interessante. Qui di seguito cercheremo di evidenziare i molteplici motivi di questo interesse.

I tre abili oratori intervenuti, nel pur relativamente breve tempo a disposizione, hanno cercato di sondare e indagare quelle che, nel controverso panorama della contemporaneità, personalmente definisco le silenti ed eludibili Forme della Cultura.

In tal senso mi è parso illuminante l’esordio dialogico di Paolo Di Paolo che, dopo aver ricordato che quest’anno cadono i cento anni dalla pubblicazione de La montagna incantata di Thomas Mann (ambientato poco prima della Grande Guerra, questo romanzo tratta di un’epoca incerta e pure controversa, per molti versi analoga alla nostra attuale), ha parlato di Volubilità della cultura contemporanea, ricordando da una parte il concetto di Effimero, quello delle Estati Romane di Renato Nicolini,  contrapponendolo in qualche modo e misura a quello di Tangibile, o preteso tale, probabilmente della cultura de jure di vecchia nozione tradizionale o scolastica. Se da una parte, da anni o decenni, si assiste a un progressivo processo di frammentazione culturale (personalmente parlo anche di rarefazione), utile è stato pure il richiamo a Tullio De Mauro, alla sua Passione civile (2004) e al suo concetto di Lifelong Learning o Istruzione Permanente per gli Adulti. In questo scenario, probabilmente vige una relazione (anch’essa permanente?) tra la suddetta volubilità e l’effimero nicoliniano, nonché sussiste una plausibile relazione ciclica con l’ormai purtroppo abusato (ma Di Paolo rimarcava l’originalità e la forza di tale intuizione negli anni ’90) di Liquido e di Società Liquida di Zygmunt Bauman.

Loredana Lipperini, riferendosi ai Festival e alle Comunità culturali letterarie, ricorda da principio Leonardo Sciascia quando, negli anni ’80,  lo scrittore siciliano ammoniva circa l’allontanarsi della meta, ella aggiungendo poi che, oggi, la medesima non si vede più. In tal senso è utile recuperare il concetto di Luciano Bianciardi di Lavoro Culturale (in passato ne ho anch’io argomentato nel mio Passaggi molteplici nel romanzo postmoderno: Bianciardi, Calvino, DeLillo, Eco, ma si veda anche qui).

A riguardo, va ricordato che, nei primi ’50, Bianciardi vagava per il grossetano con un furgone da cui si diffondevano le note di Luci della ribalta” di Charlie Chaplin, con lo scopo di “acculturare” gli abitanti di quel territorio che lui, forse con una buona dose di autoironia, considerava la sua Kansas City (a sua volta imparentata con la Rimini felliniana de I Vitelloni.) Poi, probabilmente, la tragedia di Ribolla lo indusse a cambiare qualcosa e concepì il progetto dinamitardo, abortito, che gli ha permesso di scrivere La vita agra della Milano del boom/sboom. Ma la rilevanza del Lavoro Culturale resta e fa piacere, pur settanta anni dopo, recuperarlo dalla polvere del tempo per renderlo di nuovo vivo nell’era digitale e della vaporizzazione.

In tal senso Lipperini ha sottolineato come il prodotto culturale non sia da intendere solo come libro ma esso comprenda un’ampia varietà di elementi diversi tra cui i manga, i fumetti, i video giochi, le serie TV, i Social, nonché i libri di genere minore. Inoltre Lipperini ha sottolineato come vigano  forme subdole, forse latenti, di capitalismo culturale laddove si invita sempre e solo a ragionare sui numeri. Da contrapporre a ciò è l’Utopia, ricordata da Lipperini in due nomi: quello di Steve Jobs, quando questi nel 2005, pur con qualche rischio, invitava i giovani a “essere pazzi”; e poi quello di David Foster Wallace con il suo discorso sulle libertà e quindi di nuovo sull’Utopia.

Giorgio Zanchini, come giornalista culturale, ha indicato l’accentuazione (potremmo anche dire esasperazione) del processo trasformativo culturale ricordando che, una volta, autorità e gerarchie erano riconoscibili mentre, oggi,  la digitalizzazione ha evaporato tutto. Ma la Sfera Pubblica oggi è comunque densa. A tal fine Zanchini ha citato Mario Tedeschini Lalli, con il suo Medium secondo cui è vasto, e non ben conosciuto, l’attuale campo dell’offerta culturale. In tal senso si dovrebbe abbandonare l’idea che, se i giornali “non vendono”, sia una questione di contenuti: se i giornali non vendono è una questione di forma. Necessita una Piattaforma di Relazioni Sociali in quanto, oggi, chi fa giornalismo è solo un piccolo pezzetto di quella che è la Catena di Valore. Oggi risulta difficoltoso trovare territori comuni condivisibili.

L’editore Giuseppe Laterza ha poi fornito una magnifica definizione, antropologica, di cultura (io rammento quella, pure antropologica, secondo cui la cultura è una caratteristica della specie umana, analogamente alla proboscide o alle zanne per la specie elefante) secondo la quale essa è una serie di determinazioni/concettualizzazioni storicamente determinate che risponde a un bisogno.  In tal senso l’editore ha poi stigmatizzato come il libro del generale Vannacci abbia venduto 500.000 copie, secondo solo a quello del principe Harry (sigh!) Pertanto vigono comunità e gerarchie “culturali” e, nella Scuola, si dovrebbe imparare a distinguere tra un film di Francois Truffaut e uno di Bombolo, che pure ha una sua dignità culturale. Inoltre ci sono i fattori storici: in tal senso Giuseppe Laterza ha raccontato il gustoso aneddoto secondo cui Benedetto Croce considerasse “cialtrone” Sigmund Freud che aveva scritto un libro intitolato Totem e Tabù.

Loredana Lipperini, ricordando poi Michela Murgia, liquidata spesso come una banale influencer, ha ribadito che il Lavoro Culturale si fa anche sui Social e che non è un qualcosa da svolgere nei ritagli di tempo bensì a tempo pieno.

Paolo Di Paolo ha quindi invitato gli astanti a procedere con il pensiero, non pensando al ‘900 come all’unico mondo possibile. I suoi maestri universitari, De Mauro e Asor Rosa, non liquidavano uno spazio dell’Estetica come Etica. Il libro va concepito non come un punto di partenza ma come un punto d’arrivo. In tal senso ha citato Giovanni Solimine: Cervelli Anfibi. Oggi sullo smartphone, giornalmente, transitano in media 100.000 parole. La lettura è frammentata – potremmo dire de-regolarizzata – ma non è vero che  i giovani leggono di meno.

Giorgio Zanchini, infine, ha richiamato l’attenzione sui mediatori vecchi e nuovi, sui buoni filtri come Loredana Lipperini e sui cattivi filtri, come certi influencer, citando il suo amico Matteo Cavezzali e Ravenna.

Grazie quindi a Pandora Rivista e all’Istituto Treccani, abbiamo avuto l’opportunità di assistere a un’appassionante maratona attorno alle trasformazioni formali della cultura nel nostro tempo, un incontro che rende giustizia ai tanti modi diversi, oggi, di fruire e veicolare gli elementi culturali rispetto a quelli rigidi del passato e che taluni, probabilmente, vorrebbero cristallizzati secondo criteri e modelli sovratemporali: ma, per fortuna, non è così!

In definitiva, al di là della sopravvivenza (qualcuno potrebbe chiedersi “Il problema è adeguarsi ai tempi o rimanere ancorati ai valori con cui siamo cresciuti ?” Personalmente penserei né l’uno né l’altro), credo il nodo sia sapersi confrontare a tutti i livelli – ossia come fruitore, autore, editore, distributore… cittadino – con la rarefazione e la vaporizzazione (come ha rimarcato Di Paolo, sorpassata è, ormai, anche la “liquidità” della società di Zygmunt Bauman dei ’90) del fatto culturale. Come indicato da Laterza, ci si scontra proprio con il parlare alla Vannacci o sullo scrivere del principe Harry e non si fa uso di una forma d’intelligenza utopica che è l’unica che può salvarci dignitosamente, al di là della mera sopravvivenza. Come suggerito da Lipperini, la sfida (del Nuovo Millennio?) per gli Intellettuali è il Lavoro Culturale H24 attraverso tutti i molteplici canali in grado di veicolare questo processo.

[Fabio Sommella, 22 maggio 2024]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

La giocosa sperimentazione drammaturgica e giornalistica di una Nuova Romantica, ovvero Patrizia Palombi

Per on/off musicale premere switch in alto a destra.

Molti di noi amano sperimentare, nella propria vita, nuove possibilità e percorsi, spesso al confine e in bilico tra ciò che si svolge per professione – il proprio lavoro , con cui ci si guadagna da vivere e con il quale, spesso, tante persone si identificano al punto quasi di far coincidere con esso la propria esistenza – e ciò che si svolge all’interno di altre attività non necessariamente professionali, nel senso che non sono ciò che ci permette di risolvere le problematiche economiche, ma neanche (miseramente, dal mio punto di vista) hobbistiche, termine (hobby) che, personalmente, mi ha sempre suscitato noia e nausea (come se la vita fosse solo una netta distinzione tra lavoro e hobby piuttosto che un continuum di attività, spesso per fortuna anche creative, tali da arricchire la personalità tutta e influenzare positivamente anche la tradizionale sfera lavorativa.)

La sperimentazione può abbracciare àmbiti più o meno ampi, ma è senz’altro promotrice di effetti benefici sulla vita tutta della persona che la intraprende.  Tutto ciò è, a mio avviso, anche valido per Patrizia Palombi.

Conosco Patrizia da poco più di cinque anni. Romana, proveniente come molti di noi da una famiglia di estrazione sociale semplice e popolare, è cresciuta in un clima educativo rigoroso dove il liceo classico ha lasciato impronte umanistiche rilevanti, completate in seguito con una laurea triennale in teologia. Nondimeno, Patrizia è anche moglie e madre nonché energica professionista di un prestigioso ente pubblico economico a base associativa.

Tuttavia, nella vita, Patrizia non si rassegna a svolgere le proprie attività, di pensiero e di azione, unicamente nell’ambito professionale ma avverte, certo da anni, necessità di sperimentare sé stessa in altri molteplici settori. Così, la Nostra, da quando la conosco non ha mai smesso di fare altro.

Cosa?

Chi la conosce abbastanza bene conosce pure di sicuro il suo pseudonimo di Scrittora, ovvero di scrittore al femminile, termine vezzoso con cui Patrizia vorrebbe fondamentalmente prendersi gioco – da, qui, la giocosità del titolo – delle tante ovvietà dei canoni, come il definirsi – lei, che anche scrive narrativa – scrittrice.  È questo un primo principio di provocatrice originalità che semmai fa il paio con la denominazione, della sua piccola/grande comunità culturale che aderisce amorevolmente attorno a lei, di Nuovi Romantici. Quest’ultimo è il termine che di recente ha dato anche il nome a una collana editoriale da lei diretta, insieme all’amica e collega Grazia Di Stefano, all’interno di una piccola casa editrice: The New Romantics.

Ce ne sarebbe già abbastanza per dire “Wow!”. Ma, ovviamente, non finisce qui.

Non finisce qui in quanto Patrizia ama saggiare le altrui attitudini, artistiche e culturali nel senso più lato del temine, per definirne i profili, cercando di mostrarne le peculiarità, anche all’interno di palinsesti radio-televisivi-internet: infatti collabora, settimanalmente da anni, con testate giornalistico-radiofoniche, procacciando talvolta nuovi talenti o anche semplicemente mettendo in luce passioni e affinità, sempre nell’ottica dei Nuovi Romantici.

Ma non sono poche anche le sue sperimentazioni nella drammaturgia, pur piccola, e nel teatro, in collaborazione spesso con professionisti del settore con i quali – e qui sta, nella mia opinione, la rilevanza del suo approccio – vige un perenne interscambio di linfa vitale, di umori culturali e sentimenti umani. In questo scenario, a mia memoria mi sento di citare Dante e le donne tra passato e presente, rappresentato a Roma e in altri centri del Lazio, un primo essenziale cortometraggio estratto da un suo racconto, nonché le pur piccole pièce tenute al teatro Academy di Roma e, di recente, alla Biblioteca del Parco della Pineta Sacchetti a Roma.

In tutti questi àmbiti, Patrizia Palombi diviene sperimentatrice di un’anima collettiva che – probabilmente in un modo che deve ancora trovare la piena forza e disciplina per conformare la primordiale materia caotica in un cosmo compiutamente ordinato –  scandaglia i temi che si agitano nel suo campo d’azione e di conoscenza, siano questi le famiglie allargate originatesi da sorprendenti genitori emigrati in terra d’Africa o forme d’intolleranza razziale o donne mai cresciute che hanno subìto violenze psicologiche o ancora donne viceversa bullizzate in età giovanili.

Si affiancano, alle pièce, l’organizzazione di eventi culturali, siano questi sfilate di moda multietnica o i classici reading poetici o la conduzione di presentazioni di libri. Tutti sono, in modo medesimo, una perfetta amalgama dei vari elementi messi in scena, amalgama tale da rammentare – a me – l’approccio di un grande e compianto giornalista RAI, quel Gianni Minà che sapeva condire le proprie conduzioni di spettacoli in base a una miscellanea di umanità e cultura, di empatia e profondità, di sensibilità e spettacolarità.

Così è Patrizia Palombi, giocosa sperimentatrice drammaturgica e giornalistica di un Nuovo Romanticismo.

[Fabio Sommella, 09 marzo 2024]

Medley musicale in sottofondo: ROMANTICA, di Renato Rascel, e GIOCHI D’ACQUA, di Fabio Sommella, quest’ultima nelle DUE VERSIONI, la prima STRUMENTALE (piccola orchestra), la seconda in un estratto per CHITARRA E VOCI (Fabio Sommella e Rosanna Sabatini). Tutti gli arrangiamenti orchestrali e l’esecuzione alla chitarra sono del proprietario di questo sito.

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Il luogo della libertà, ovvero il palcoscenico dei De Filippo

Eduardo Scarpetta con Luisa De Filippo e i loro figli Eduardo, Titina e Peppino.
Qui rido io, film del 2021 di Mario Martone, è un’intensa e acuta parabola umana e artistica (magnifica l’ambientazione, splendide la fotografia e le riprese, serrato e avvincente il ritmo narrativo scandito anche dal susseguirsi delle struggenti canzoni del repertorio storico partenopeo) della vita, pubblica e privata, del commediografo napoletano Eduardo Scsrpetta. Tuttavia il film – che si avvale di formidabili attori tra cui, ovviamente, brilla per istrionismo Tony Servillo nel ruolo del protagonista, padre-padrone d’una atipica famiglia allargata d’inizio secolo – è soprattutto un omaggio alle origini e alle emblematiche premesse, ancora umane e artistiche, di Eduardo De Filippo e dei suoi sorella e fratello Titina e Peppino. È la sottesa, implicita, dialettica fra i due Eduardo – Scarpetta senior e De Filippo – che fa vibrare le corde emotive e intellettuali di tutta la vicenda. L’analisi dei caratteri e gli intrecci esistenziali sono resi magistralmente da Martone ma l’acme di tutto il racconto filmico sta nel drammatico ausilio che il giovane Eduardo dà all’ancora piccolo Peppino quando quest’ultimo, disperato, vuole fuggire verso una non meglio anelata libertà. In quel frangente Eduardo blocca il fratellino indicandogli il palcoscenico e dicendogli: “Vuoi la libertà; è lì sopra, la nostra libertà!” In questa maniera Martone – riecheggiando nobili precedenti figure cinematografiche, che vanno dal padre di Fanny e Alexander di Bergman (che nel suo teatro trovava un luogo certo e riparatore rispetto alla convulsa vita quotidiana) al pianista sull’oceano di Baricco/Tornatore (che rifuggiva l’aperto mondo in luogo dello spazio conchiuso eppur in qualche modo infinito della tastiera del suo pianoforte) – lascia che la vicenda, pur intrigante di una comunque ordinaria saga famigliare d’inizio secolo, si apra alla leggenda, toccando le vette dell’elegia e del sublime. Il “vecchio”, incarnato in Scarpetta, ancora vincolato e ben saldo alle maschere se non di Pulcinella certo a quelle della sua creatura Felice Sciosciammocca, subordinato alle egide culturali dannunziane e crociane di cui, pur in modo diverso, era succube, lascia il posto e prelude al “nuovo”, incarnato nel giovanissimo Eduardo (di cui conosciamo la futura non subordinazione al pur grandissimo Pirandello). In quell’acme, attimo d’intenso soccorso dialogico fra i giovanissimi Eduardo e Peppino, Martone annuncia il futuro e restituisce, a noi spettatori, la profondità ma anche il sapore agro-dolce di quella che sarà parte della grande storia teatrale e dello spettacolo italiano, ma non solo, del ‘900.
[Fabio Sommella, 22 maggio 2023]

 

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Pretese barriere linguistiche vs contaminazioni culturali

Davvero perplesso, financo offeso, rifletto.

Ormai da tanto tempo – decenni? – non faccio distinzione “nazionale” tra la musica di Puccini e quella di Mozart, la canzone di De André o di Paul Simon, fra il cinema di Fellini o di Bergman, l’attorialità di Totò o di Chaplin… amandoli io tutti, indistintamente, come opere d’arte e produzioni del genio umano, dei figli di questo pianeta.

Viceversa penso, vedo, sento, avverto, percepisco… come, nella coscienza comune e pubblica, il dictat (!?) di quel tal attuale ministro di questo governo pesi al punto da impedire a tanti, pena millantate multe, di pronunciare – in maniera, ad esser generosi, davvero ridicola – termini anglofoni o d’altra lingua “non nazionale”, in nome di non so quale preteso desueto purismo linguistico e culturale, dimenticando – il ministro, il governo, nonché coloro che li hanno votati – che l’interculturalità (leggasi  L’instaurazione e il mantenimento di rapporti culturali come forme di dialogo, di confronto e di reciproco scambio di conoscenze tra paesi o istituzioni o movimenti diversi.) è insita nella vita e nel Mondo Futuro, al di là delle ridicole pretese barriere politiche, specie per chi ha formazione transdisciplinare, lavora con i computer, ha lavorato nell’IT, naviga su internet e studiando, anche l’antropologia culturale, si è sollevato dagli infimi provincialismi di cui è intrisa la loro mente.

Signor ministro, ha mai sentito parlare di Melting Pot?

Una risata vi seppellirà 🤣 

A riguardo, oltre alla simpatica locandina qui sotto (ma gli esempi sono naturalmente molteplici), si veda anche qui e qui.

#ApriteviAlleContaminazioniCulturali
#ApertiAlleContaminazioniCulturali
[Fabio Sommella, 21 maggio 2023]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

I conflitti di un Uomo letti nella figlia, ovvero Ultima Stazione di Anna Vasta

In una dimensione tanto meta-narrativa che meta-critica, scenario spesso proprio degli incontri impossibili, Anna Vasta – già affermata poetessa di acuta e incisiva sensibilità, nonché pensatrice di indubbio pregio intellettuale e culturale – ambienta [Anna Vasta, Ultima stazione, in Salvatore Stefanelli (Ed.), Le improbabili, 2023] un pregnante dialogo immaginario tra un padre e una figlia, pur simbolici, nello specifico Lev Tolstoj e una delle sue più apprezzate creature letterarie, vale a dire quell’Anna Karenina che, da quasi centocinquant’anni, affascina e seduce tanto la critica letteraria che la filmografia.

Se anche Anna Vasta sottolinea la convergenza del destino di padre e figlia in quelle pur differenti stazioni ferroviarie che segneranno, tragicamente, gli esiti di entrambi, nel preambolo di questo meraviglioso incontro, ma soprattutto nel cuore del medesimo, ne disegna e ne tesse le forme e gli orditi cesellando il quadro d’insieme con finissime trame critiche e con ulteriori dettagli che, al di là della bellezza intrinseca, esprimono la recondita intesa che, caratterialmente, lega il padre alla figlia, lo scrittore al personaggio, il demiurgo alla propria creatura.

Magnifico è leggere la lunga digressione che la Vasta dedica alle atmosfere drammaturgiche tolstoiane filtrate attraverso la paesaggistica e le ambientazioni russe ottocentesche: “Le immense incolori distese di neve, le betulle spoglie, la luce fioca dei tramonti e il gorgoglio fumante del samovar. Poi le prime crepe nei laghi gelati, i rivoli d’ acqua smeraldina che luccicavano tra i ghiacci. Era il disgelo”. Ma ciò è l’indispensabile background che la poetessa e scrittrice imprime al suo emblematico ed elucubrante racconto breve per sostenere altri significati: l’intimo rapporto che sorregge padre e figlia simbolici, nonché i destini di molti, certo dei medesimi ma, non ultimi, anche quelli di eventuali lettori.

Se con l’altra immensa eroina della propria narrativa – l’irresistibile, per molti di noi lettori soprattutto maschili, Nataša – il Maestro della letteratura russa era stato magnanimo, consegnandola infine a un destino  di caldo tepore famigliare a fianco di uno dei suoi maggiori alter-ego – quel Pierre Bezuchov, personaggio sempre in bilico fra opposte sorti e tensioni nonché pieno rappresentante, insieme al principe Andrej e a Konstantin Levin, dei tormentosi dubbi esistenziali dello scrittore – Tolstoj, con “Annuska” Karenina, inizia in qualche modo a preconizzare anche la propria tragedia. Anna Vasta, nel proprio racconto, attesta questa consapevolezza quando il conte Tolstoj, rivolgendosi alla Karenina, sottolinea che “non potevo cambiare la tua storia e inventarmi per te amori felici, se mai esistono. E comunque non erano nella mia vena.”

Ciò sarà infatti anche per i protagonisti di altre opere come La morte di Ivan Il’ič o Sonata a Kreutzer.

È questo, ci segnala Anna Vasta, l’intimo rapporto che accomuna la protagonista Anna Karenina con il suo creatore; ma anche, aggiungiamo noi, con le altre successive creature letterarie, nonché con molti lettori che hanno amato e amano questi sontuosi affreschi di vita pur romanzata: il conflitto, fino alla rottura estrema comprendente il sacrificio e la rinuncia a ogni forma di esistenziale accondiscendenza, verso le convenzioni e gli obblighi della società del proprio tempo. È in tale ottica che Anna Vasta, quando Anna Karenina si rivolge al conte Tolstoj, le fa dire: “Fui messa al bando dall’ ipocrita, moralista, corrotta società pietroburghese per la mia storia con Alekeij. Voi conoscevate bene quel mondo iniquo e, per quanto uomo di autentici principi cristiani, non avete puntato il dito contro l’adultera.”

Cose dell’Ottocento? Superate? Ovviamente no, o comunque, pur in altra foggia e trasformate dalle diverse culture del tempo e dei luoghi, certo non solo.

Pertanto lode ad Anna Vasta per questo mirabile impossibile dialogo fra un padre e una figlia, fra un Padre e i suoi figli lettori, fra un padre e i suoi più riposti conflitti irrisolti di Uomo.

[Fabio Sommella, 8 aprile 2023]

 

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Lo sapevano i poeti ermetici, lo sapevano i pre-classici… lo sanno gli scienziati (Foglie in autunno)

“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” è Soldati, una delle liriche più brevi di Giuseppe Ungaretti che, quando era sul fronte, durante la Grande Guerra – insieme, tra gli altri, anche ai miei nonni, entrambi del ’93 (del XIX ) – spinto dalla pressante tematica cosciente della precarietà della vita in quel contingente contesto, probabilmente ispirò questi suoi versi parafrasandoli da quelli di  Mimnermo, noto poeta greco pre-classico, “pessimista”, che era vissuto in Grecia tra il VII e VI secolo a.C.

In seguito, prima e dopo, altri poeti hanno ripreso le medesime tematiche, in varie forme.

Mimnermo scriveva “Siamo come le foglie”, comparando la condizione umana a quella delle fronde degli alberi che, in autunno, si distaccano dai rami e vengono abbandonate dai medesimi, morendo.

La prima volta che lessi questi versi del poeta pre-classico era sul finire dei ’70. Essi erano in epigrafe a un trattato di chimica del professor Luciano Caglioti: I due volti della chimica. Rimasi piacevolmente colpito circa come, un eminente scienziato, portasse a suffragio o a introduzione o a testimonianza delle proprie argomentazioni il testo lirico di un poeta dell’antica Grecia.

Col tempo ho poi imparato, come sosteneva la nostra docente di Letteratura del Liceo, che non esistono “due culture” – e, se esistono, sono solo nella testa di persone intellettualmente pigre – ma esiste un approccio olistico e integrato, di reciproco supporto tra forme di pensiero solo apparentemente disgiunte e diverse. Infatti, qualche anno dopo, scoprii sempre con piacere che i capitoli del trattato di Microbiologia erano preceduti da epigrafi pure “classiche” (che so: i versi delle satire di Giovenale!) o, ancora tempo dopo (anni ’90), i capitoli del manuale del Database di ORACLE 6, della Oracle Corporation, erano anche preceduti da sontuose ed eminenti citazioni letterarie e teatrali: tutto ciò a significare, simbolicamente o di fatto, l’intimo parallelismo e connubio tra le formae mentis scientifico-tecniche e quelle, cosiddette, letterario-umanistiche.

Ieri c’è stato, nuovo e terribile flagello, il terremoto in Turchia e in Siria, con ripercussioni, notevoli e avvertibili, in molte altre aree del continente dell’Eurasia, Nord e Sud. Si contano già migliaia di morti. E allora viene spontaneo un elementare pensiero.

Rescue teams look for survivors under the rubble of a collapsed building after an earthquake in the regime-controlled northern Syrian city of Aleppo on February 6, 2023. – A 7.8-magnitude earthquake hit Turkey and Syria early on February 6, killing hundreds of people as they slept, levelling buildings and sending tremors that were felt as far away as the island of Cyprus, Egypt and Iraq. (Photo by AFP)

In una dimensione – planetaria – ormai così fragile e labile come quella che riguarda tutti i 7 o 8 miliardi di umani che popolano questa briciola infinitesima di frammento d’universo che è la Terra, alcuni di noi continuano a farsi guerra come nei secoli passati? Con armi che, oltre a uccidere, non possono certo far bene ai già precari equilibri del pianeta. Alle sue faglie già estremamente critiche.

SIamo come le foglie sugli alberi autunnali.

E acceleriamo i nostri autunni!

[Fabio Sommella, 06 febbraio 2023]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

 

 

Tra Attualità ed Eredità (Culturali): parallelismi nelle Memorie e Coscienze Collettive

In qualità di abbonato, io, a Repubblica Online, leggo la Prima Pagina, in NewsLetter, di Maurizio Molinari e – come da sempre mi accade fin da quando, allora poco più d’un ragazzino, leggevo il Messaggero che mio padre, alla sera, portava a casa – avverto un inevitabile capogiro di fronte alla varietà e all’imponenza, spesso funesta, delle notizie dell’attualità provenienti dal Mondo: “la svolta sull’invio dei carri armati per l’Ucraina”, con “il via libera definitivo della Camera italiana al decreto Ucraina” che “proroga al 31 dicembre 2023 la cessione da parte di Roma di materiali militari a Kiev”; “Il Bollettino degli scienziati atomici” secondo cui la “fine del mondo” è ora “ad appena 90 secondi dalla simbolica mezzanotte che indica il traguardo dei tempi”; la conferma dello “sciopero dei benzinai” per cui gli “impianti di rifornimento carburanti rimarranno per lo più chiusi – compresi i self service – per 48 ore consecutive”; la notizia che nei “giorni caldi della giustizia il presidente della Repubblica Sergio Mattarella difende la magistratura finita nel mirino del ministro Carlo Nordio”; le “Acque agitate a Roma in Fratelli d’Italia“, per cui la “premier e leader commissaria la federazione cittadina scontrandosi con il suo vecchio mentore”; “la fenomenologia di Salvatore Baiardo”; il racconto de “l’Agnelli americano”, laddove – sottolinea il giornalista – “a vent’anni dalla sua morte, il ricordo di ‘Gianni’ – qui a New York nessuno lo chiama l’Avvocato – sia sempre vivo, affettuoso, nostalgico”; “le candidature per gli Oscar 2023” che “premiano il cinema delle grandi storie.”

Insomma: di fronte all’ampiezza e alla numerosità delle informazioni che ci sovrastano, la mente – il cervello? – non può che vacillare.

Sarà forse per questo che la mia mente, nella congerie di tali e tante notizie, imbocca una strada a latere, quasi in disparte, rifugiandosi – sorta di novello o perenne Elogio della Fuga di Henri Laborit – in una dimensione sovratemporale, di difesa.

Infatti il ventennale della morte di Giovanni Agnelli – il ricordo di ‘Gianni’, citato nella suddetta Prima Pagina – lascia affiorare nella mia memoria la dichiarazione in TV di un intervistato, presso il Lingotto di Torino, all’indomani del decesso dell’Avvocato; proprio in quell’occasione, qualcuno aveva sentenziato: “È morto l’ultimo Principe del Rinascimento!” Oggi non ritrovo la dichiarazione precisa ma solo qualcosa di similare, tra cui quanto riportato qui.

Altrove, viceversa e precisamente qui, trovo una decisa critica, indicata come erronea e fallace, a questa immagine “rinascimentale”, sorta di simbolico e contemporaneo AntiRinascimento.

Ma non è questo il punto, perché – stavolta senz’altro a ragione – mi viene subito in mente la dichiarazione di Nino Manfredi all’indomani della morte di Totò: “È morta l’ultima delle grandi maschere della commedia dell’arte”.

E allora penso a come e a quanto, il nostro comune sentire di persone della Modernità, o Post-Modernità, sia legato e agganciato strettamente – in modo diretto o indiretto, consapevole o inconsapevole, cullandone amorevolmente i criteri e i dettami comparativi – alle memorie storico-culturali: nei casi di Agnelli e Totò rispettivamente il Rinascimento, vero o presunto tale, e la Commedia dell’Arte, probabilmente più aderente alla comparazione proposta; ciò laddove le eredità, culturali, di queste fasi storiche, sebbene lontane e ultrasecolari, pur subliminalmente si dipanano nel tempo, continuandosi, perpetuandosi e giungendo fino alle nostre coscienze.

E infatti penso a quando personalmente, alcuni anni fa, ho ipotizzato un intimo – pur sotterraneo – nesso fra la rappresentazione della donna nella lirica due-trecentesca da una parte e, dall’altra, la rappresentazione della medesima in certa raffinata canzone d’autore.

Se gli esempi del parallelismo, vigente tra forme dell’attualità e forme artistico-culturali storiche, potrebbero essere ulteriori (ma ci fermiamo qui e le tralasciamo, almeno per ora 😊), va altresì rimarcato un semplice fatto: le nostre Coscienze Collettive, di moderni e/o post-moderni uomini del XX e del XXI, sono incontrovertibilmente e  intimamente connesse alle nostre Memorie Collettive Culturali, le prime facendo uso continuo, consapevole o meno, delle seconde.

E questo – a dispetto di ogni capogiro e vacillar della mente di fronte alla varietà e all’imponenza delle notizie dal Mondo, spesso funeste e ignobili – mi fa star inspiegabilmente bene, in qualche modo e misura lenendo il cruccio, il dolore, la paura; relativizzandoli, forse!

[Fabio Sommella, 25 gennaio 2023]

 

I pirandelliani vecchi e giovani, tra romanzo e sceneggiato TV

In occasione del decesso di Irene Papas, avvenuto pochi giorni fa, la memoria mi è corsa automaticamente all’interprete dell’Ulisse televisivo, l’attore già jugoslavo Bekim Fehmiu. Ho iniziato quindi a esaminare alcune interpretazioni italiane di quest’ultimo: dalla celeberrima Odissea, della seconda metà dei ’60, alla commovente Ultima neve di primavera, dei primi ’70, fino a scoprire – è del 1979 – la trasposizione televisiva de I vecchi e i giovani, il famoso romanzo di Luigi Pirandello pubblicato in vari momenti e modalità attorno al 1910 (1909-1913).

Ho pertanto deciso di vedere, in una maratona TV di un’unica serata, le cinque puntate della trasposizione televisiva de I vecchi e i giovani, dopo aver acquistato su internet il cofanetto in due DVD.

Avevo letto il romanzo – di cui rammento condensasse sostanzialmente tutte le argomentazioni specificamente politiche del grande scrittore e commediografo siciliano (essendo le altre sue opere, seppure di valore universale, rivolte a un contesto decisamente più privato ed esistenziale) – in epoca giovanile, nei primi anni ’70, rimanendo allora fortemente colpito dalle vicende – per citare, qui, solo  i protagonisti verso i quali allora avevo avvertito un qualche feeling e maggiore empatia – di Roberto Auriti, di Aurelio Costa, di Lando Laurentano e di Mauro Mortara. Sono infatti questi i personaggi che, pur nelle loro parziali contraddizioni, mi apparivano – e, confermo, mi appaiono tuttora – decisamente i più nobili di tutta la saga; addirittura rammento che il personaggio del Mortara, l’anziano patriota che in sé serbava indelebili i segni e le connotazioni del garibaldino risorgimentale, lo citai nel tema dell’esame di diploma superiore.

I vecchi e i giovani è romanzo – nonché sceneggiato, pur se, dal romanzo, “liberamente tratto” – sociale fondato sulle antitesi di personalità, di carattere, di temperamento, di orientamenti esistenziali e politici – in una espressione sulle antitesi delle peculiarità e dei fattori umani – per molti versi analogo a molte altre opere letterarie, una per tutte il Guerra e Pace tolstoiano. In quanto tale, all’interno di una sontuosa galleria di tipologie umane, I vecchi e i giovani è vicenda emblematica che suggella gli eterni universali del Male e del Bene della Storia laddove, amaramente e anche verghianamente (tanto Pirandello è debitore al grande corregionale autore dei I Malavoglia e di Mastro Don Gesualdo), il primo trionfa sul secondo, lasciando annegare nei gorghi più disparati – di dimenticanza o morte o esilio – coloro che tentano di cambiare la rotta del proprio annunciato destino, proprio come in un novello Ciclo dei Vinti, ovvero all’interno di una rappresentazione pirandelliana che, nel 1909, ancora possiedeva fisionomie naturalistico-veristiche e che, nell’universo pirandelliano, solo successivamente assumerà i profili e consoliderà il dramma dell’uomo borghese.

La riduzione televisiva, densa di ellissi narrative, è produzione italo-francese del “tardo” periodo RAI, 1979, laddove il periodo d’oro degli sceneggiati RAI abbraccia tutti gli anni ’60, estendendosi a ritroso nella seconda metà ’50 e in avanti nella primissima metà ’70. Per la regia di Marco Leto, si avvale di uno stuolo di prestigiosi attori e bellissime attrici tra cui Stephanie Beacham, il felliniano Alan Cuny (La dolce vita), il leoniano Gabriele Ferzetti (C’era una volta il West), il grandissimo attore di teatro Glauco Mauri, reduce dal ruolo del padre nel morettiano Ecce bombo, il pur futuro morettiano Remo Remotti (Bianca et al.), lo scoliano Stefano Satta Flores (indimenticabile Nicola Palumbo di C’eravamo tanto amati) e il già citato Ulisse/Bekim Fehmiu.  Questa realizzazione televisiva mostra, qua e là, l’emergere degli elementi pirandelliani canonici: l’apparenza, la mutevolezza del volto, ecc., quasi a voler confermare il ruolo della poetica pirandelliana tradizionale anche in un ampio racconto pertinente il sociale e il politico. Tuttavia l’ampia rappresentazione, più che le tragedie storico-sociali, in modo coerente evidenzia il fallimento, diremmo a largo raggio, delle più genuine aspirazioni umane: l’utopistico socialismo di Roberto Auriti, il filantropismo imprenditoriale di Aurelio Costa, la desiderata coerenza dello spirito rivoluzionario di Lando Laurentano (figlio di principi collusi con il clero più reazionario), il nostalgico e riguardoso anelito risorgimentale di Mauro Mortara. Tutte queste sono connotazioni, autoriali ma anche culturali, destinate a deflagrare proprio come già avveniva nel suddetto verghiano Ciclo dei Vinti.

Sono proprio quei vecchi – i retrivi Flaminio Salvo e Ippolito Laurentano, il pur “illuminato” Cosmo Laurentano – e quei giovani – Lando e Aurelio, Dianella e Nicoletta, nonché l’ambiguo e mellifluo Ignazio Capolino, splendidamente reso da Stefano Satta Flores – a incarnare le sempiterne dialettiche dello spirito umano sospeso fra ieri e oggi, fra ignavia e coraggio, fra ricchezza e miseria, sopra lo sfondo delle lotte operaie e contadine di fine XIX secolo, fra Palermo e Roma, fra scandali di banche romane e rivolte di pezzenti nelle solfatare siciliane.

Non so dire bene quanto, il pur bel lavoro di trasposizione televisiva di Marco Leto, renda in effetti giustizia al romanzo di Pirandello (non rammento alla perfezione quest’ultimo che, spero, prima o poi, rileggerò), tuttavia decisamente questo sceneggiato, ancora oggi, dopo oltre quaranta anni, avvince e lascia pensare, nonché diverte come, spesso, avvincevano, lasciavano pensare e divertivano gli sceneggiati della Grande Stagione RAI.

[Fabio Sommella, 26 settembre 2022]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Argomentando attorno a I luoghi del pensiero di Cesare Fornari

Coloro che leggono le pagine di questo sito/blog di certo sanno che capita sovente d’imbatterci in scritti che, oltre a esser generosi, posseggono una forza interiore che emoziona; è il caso anche del testo I luoghi del pensiero di Cesare Fornari che, unitamente a Rosanna Sabatini, oggi presentiamo qui nelle seguenti Parte 1 e Parte 2.

[Fabio Sommella, 21 agosto 2022]

 

Per leggere il testo completo de I luoghi del pensiero, autore Cesare Fornari, si può fare clic qui, su I luoghi del pensiero.

Parte 1: Quei rituali contadini nella memoria, ovvero “I luoghi del pensiero” cari a Cesare Fornari [di Fabio Sommella]

Chi è Cesare Fornari, autore de II luoghi del pensiero?

Come alcuni di noi, Cesare è una persona poliedrica ed eclettica; volendo brevemente sintetizzare, senza dubbi possiamo affermare: ingegnere, ex-insegnante di scuola superiore (matematica e sicurezza sono state le sue principali aree di lavoro), agronomo, ciclista, fisarmonicista, ballerino… e certo la lista potrebbe proseguire. Pertanto, per ulteriori dettagli, rimando il lettore al sito di Cesare Fornari e alla sua pagina FaceBook.

Ma, oltre a tutto ciò, Cesare è un generoso e schietto amico che ho avuto occasione di conoscere questi ultimi anni nell’area reatina del comune di Petrella Salto, precisamente a Borgo San Pietro. Questa località, come lo stesso Cesare sostiene nell’incipit – a mio avviso straordinario – del suo scritto, è una “piccola e povera zona del reatino” che, “da bambino, mi appariva immensa, praticamente il mondo per me era tutto lì; di Rieti avevo sentito parlare appena, forse qualche volta c’ero anche stato e mi era parso un luogo misterioso, strano, al limite del surreale. Roma e la luna, poi, erano per me la stessa cosa.

Il “praticamente il mondo per me era tutto lì” ha un evidente valore simbolico che trascende la singola individualità del caso specifico e riecheggia nobili precedenti; ad esempio: rammento che il grande scrittore e artista Vincenzo Cerami, mai troppo compianto, in un’intervista sul Messaggero ebbe a dire che, quando negli anni ’50 ai tempi delle scuole medie in quel di Ciampino (area metropolitana fra Roma e i Castelli Romani) lui, immigrato con la famiglia da una limitrofa regione attigua al Lazio, conobbe un docente di Lettere che si chiamava Pier Paolo Pasolini, fu allora che comprese che il Mondo aveva una Storia. E allora ci si chiede: quale significativa analogia con le memorie del nostro amico Cesare?

Ma tornando a I luoghi del pensiero, va osservato che un incipit così superbo potrebbe essere giustamente il preambolo di un lungo e fecondo racconto alla maniera di Cesare Pavese. Viceversa Cesare Fornari, almeno per il momento, si accontenta di ripercorrere alcune pregnanti fasi della sua infanzia attraversando una gustosa galleria di immagini, sequenze, suoni, odori, cerimoniali, come per esempio quando afferma “per me salire su un albero o camminare per terra era la stessa cosa“. Questi pittoreschi e caleidoscopici amarcord recano in loro l’inequivocabile sapore agrodolce – talvolta financo efferato – di una vita vissuta con occhi di bimbo perennemente curiosi.

Pertanto, invitandovi a leggere anche l’altrettanto vibrante intervento di Rosanna Sabatini qui di seguito nella Parte 2, incito il lettore a entrare ne I luoghi del pensiero di Cesare Fornari, immergendosi negli intensi ricordi di un animo sensibile, nobile e candido di quando Roma era percepita come la Luna e i romani come degli avventori talvolta invasori, teatranti plateali e patetici, nelle memorie dell’amico Cesare permeate dai rituali contadini scandenti i ritmi delle stagioni, sullo sfondo di una natura al contempo innocente e crudele,  memorie e rituali che – come accade per le genuine testimonianze accorate – acquisiscono la connotazione dell’universalità.

[Fabio Sommella, 21 agosto 2022]

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)

Per leggere il testo completo de I luoghi del pensiero, autore Cesare Fornari, fare clic su I luoghi del pensiero.

Parte 2: Chi è Cesare, mio cugino (Memories) [di Rosanna Sabatini]

Chi è Cesare? Mio cugino.

Un cugino speciale per la sua poliedricità ed eclettismo, come ha scritto Fabio Sommella; aggiungo: una specie di “folletto benevolo” che piacerebbe a ciascuno di noi incontrare nei boschi e comunque fuori dai centri abitati, di quei folletti di cui si parla nelle fiabe.

Che cosa abbiamo in comune oltre alle nostre madri, Gina e Iole, figlie di due fratelli? Molto più di quanto immaginassi, prima di leggere il suo scritto.

Intanto, a entrambi piace guardare il mondo che ci circonda “con gli occhi di un bambino” e Cesare ne dà ampia dimostrazione nel suo racconto. Poi, anche se sono nata a Roma, sento che non ho mai rinnegato le mie radici che affondano nel Cicolano, un lembo di terra dove gli antichi abitanti erano popoli fieri e combattivi che non si sono mai arresi ai romani e sono stati da loro sterminati.

E dei “romani” pure parla il racconto di Cesare, di quelli che sono stati costretti ad allontanarsi dal paese per motivi di lavoro dopo la costruzione della diga che ha dato origine al Lago del Salto.  Quei figli del Cicolano esuli tornavano periodicamente per “invadere” il paese – Borgo San Pietro – e spesso rinnegavano le loro origini, ostentando una certa superiorità economica e sociale rispetto ai “paesani”.

E ancora parla di suo nonno Cesare, lo zio di mia madre, che ricordo, quando alla fontana del paese andava con l’asino a raccogliere l’acqua insieme alla moglie Loreta e anche per i racconti di mia mamma bambina, quando, ad esempio, la salvò da una vipera che si era introdotta in casa.

Nel racconto di Cesare – che parla del nonno – ho rivisto mio nonno, Remigio, che come lui era uno stagnino ambulante che, però, andava in bicicletta di paese in paese e che svolgeva lo stesso tipo di vita di suo fratello, quando non lavorava.

Inoltre, quando Cesare scrive: “Spesso l’attendevo sulla porta e appena riconoscevo, da lontano, la sua inconfondibile figura correvo per andargli incontro con la speranza che mi avesse portato qualcosa, speranza che non andava mai delusa. Nelle sue tasche c’era puntualmente qualche mela o pera o, secondo la stagione, qualche nocciola, delle noci, delle fragole, delle fave ecc…”, ho rivisto il mio nonno paterno, Antonio, che lasciava per me sempre qualche grappolo d’uva appeso alle piante dopo la vendemmia.

Teneri e dolci ricordi che condivido con mio cugino. Così come condivido pure le tradizioni della tavola delle feste che mia madre seguiva a Roma come zia Loreta e zia Iole.

Infine, anch’io aspettavo con ansia le vacanze agostane per stare un po’ con Cesare, Carlo e Nadia. Spesso andavamo in un grande prato ai piedi di un castagneto poco fuori del paese – che oggi è stato trasformato in un rimessaggio per camper e roulotte – e passavamo mattinate indimenticabili a giocare. A quelle mattinate ho dedicato una delle mie poesie del libro Dal cuore e dall’anima (poesie del cassetto) – From heart and soul (poems of the drawer) della Casa Editrice Kimerik:

Musica

Musica soave,
capace di portare i miei pensieri
su ali d’argento… lontano!
I miei occhi guardano l’azzurro del cielo
e le acque di un lago,
scintillante ai raggi del sole.
Il cancello è aperto, come sempre,
quel cancello che chiudeva
l’accesso a quel prato,
Eden nei miei sogni di bambina.
E quel colle, degradante sul prato,
coperto di profumati castagni,
ricco di fragole e mirtilli,
di siepi di more e di arbusti,
è sempre lì ad aspettarmi.
Ora non vedo più
né il cielo, né il lago,
né il prato, né il colle,
né sento il profumo
dei castagni e delle fragole:
la musica è finita.

Per concludere, caro Cesare, mi hai fatto un grande regalo a voler condividere il tuo bellissimo racconto, perché mi hai dato emozioni che mi hanno fatto piangere e che hanno fatto bene al mio cuore.

Grazie!

Tua cugina, Rosanna [21 agosto 2022]

 

Per leggere il testo I luoghi del pensiero di Cesare Fornari, fare clic su I luoghi del pensiero.

Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)