Quando, nella coscienza del Mondo, affiora il male di vivere
Qua e là, all’interno delle vicende dei personaggi di Guerra e Pace, dapprima affiorando sommessamente poi attecchendo alle cose e alla coscienza del mondo per espandersi sempre più fino ad aprire devastanti brecce nell’animo dei protagonisti; tanto ovviamente dei malvagi quanto sovente anche degli spiriti nobili (si pensi, ad esempio, agli episodi di acrimonia familiare di Nataša stessa o ai frequenti risentimenti esistenziali di Andrej), palesemente e inesorabilmente, individualmente o coralmente, in tutta la sua insostenibile e incontenibile veemenza culminante nella dimensione dell’assurdo della vita, oltre il dolore e la tragicità, come una sorta di grottesco estremo paradosso, erompe il male di vivere.
Sì, il male di vivere, proprio quello che, tra la più alta poesia del ‘900, magnificamente e in modo sommo, sarà simbolicamente trasfigurato nelle immagini allegoriche di Eugenio Montale.
In queste circostanze, i protagonisti tolstoiani, nulla potranno contro la malevola falla aperta se non attendere pazientemente che essa si acquieti e si ricomponga da sé, scompaia, si ammansisca, si attenui, si rarefaccia fino a svaporare completamente. Paradigma opposto alla vitalità che Pierre stesso è riuscito a manifestare in altri momenti, così riuscendo a rompere le catene dell’incomunicabilità generando nuove forme di vita negli angusti spazi esistenziali[1], il male di vivere appare come una presenza davvero insormontabile; emblematicamente il Maestro russo ammonisce:
« Eccola… Eccola di nuovo!» disse Pierre a se stesso, e un brivido, istintivamente, gli corse per la schiena. Nel viso mutato del caporale, nel suono della sua voce, nell’eccitante e assordante rullar dei tamburi, s’era data a riconoscere a Pierre quella misteriosa, implacabile forza, che spingeva gli uomini – contro la volontà loro – a massacrare i propri simili: quella forza che già aveva veduta in atto al momento dell’esecuzione. Abbandonarsi alla paura, tentar di sfuggire a questa forza, rivolgersi con implorazioni o promesse agli uomini che si trovavano a essere strumenti, era inutile. Bisognava aspettare e pazientare. (…)
Dram-da-da-dam, dam, dam, rullavano, rullavano i tamburi. E Pierre si rese conto che la forza misteriosa s’era ormai impossessata in pieno di questa gente, e che, a questo punto, dire ancora qualche cosa sarebbe stato vano. [Libro Quarto, Parte Seconda, Capitolo X111, pp. 1552-1553].
Mirabilmente sintetizzato nelle polarità, che danno il titolo all’opera, della Guerra e della Pace, il rapporto dialettico tra gli antitetici elementi dell’umana natura (“Pierre si rese conto che la forza misteriosa s’era ormai impossessata in pieno di questa gente, e che, a questo punto, dire ancora qualche cosa sarebbe stato vano”) emerge più che mai compiuto, stavolta in Pierre, ancor maggiormente che nelle millecinquecento pagine precedenti, contrapponendosi e facendo da contrappunto, o melodia in primo piano, ai precedenti background sinfonici de “Il cielo” di Andrej e alla suadente “Cometa” dello stesso Pierre.
Come dire, parafrasando anche Arthur Penn ne il suo Piccolo grande uomo[2], tutto va bene finché “l’erba cresce, il vento soffia e il cielo è blu”; poi giunge un giorno, o un momento della propria vita (lungo talvolta un giorno, talvolta anni), in cui, ciò è negato: il vecchio sciamano indiano Cheyenne scorge l’erba non crescere, il vento non soffiare, il cielo oscurarsi e, nel buio dei suoi occhi di cieco, ode gli echi degli spari dell’uomo bianco usurpatore e le grida della sua gente; il poeta scorge il rivo strozzato[3], spasmodicamente teso in uno strenuo e disperato gorgoglio; la foglia riarsa, strappata dal ramo natio, è mortalmente accartocciata in sé, senza più segni di vita; il cavallo giace stramazzato al suolo, agonizzante, e si possono scorgere solo gli ultimi sussulti di quelle membra e di quei muscoli, una volta possenti e lanciati nell’ebbrezza del galoppo, ora convulsamente deperire fino alla morte.
Adesso, per Pierre, nulla vale e nulla può l’ostinata ricerca di un senso di bene, inconoscibile in tali circostanze (“tentar di sfuggire a questa forza (…) era inutile”); solo gli sguardi tetri e arcigni del caporale o del capitano si possono cogliere, con le loro inclementi sollecitazioni a procedere, mentre i ritmi del vivere sono scanditi dalle pulsazioni dei tamburi di guerra.
Come insegna il poeta, allora solo la “divina indifferenza”[4] potrà porre veto e ostacolo al prorompere dell’angoscia e dello scoramento umani, nella piena coscienza della condizione della barbarie: come una statua, sospesa immobile nella sonnolenza del meriggio, quando la calura meno clemente incalza e l’aria sembra divampare in un giuoco di invisibili ma palpabili faville. Ci sentiremo allora come appostati presso un “rovente muro d’orto” [5] che, lassù in cima, reca “cocci aguzzi di bottiglia”. Il solenne disincanto della “nuvola”, leggera e leggiadra, rimanderà la coscienza ad altre recondite ma pur esistenti verità della natura umana; a quella del “falco” che, “alto, levato”, si solleverà da quelle miserie, in attesa di poter ritornare meno distante e riavvicinarsi al nostro senso del quotidiano senza cagione di timore alcuno.
Come Pierre, attenderemo che i tamburi di guerra cessino il loro sinistro rullio.
[1] Cfr La cometa e Pierre vs Andrej, in questa Parte Terza di questo stesso saggio
[2] The little big man (Il piccolo grande uomo), 1969, di Arthur Penn
[3] Spesso il male di vivere ho incontrato di Eugenio Montale, da Ossi di seppia (1925)
[4] Ibidem
[5] Meriggiare pallido e assorto, di Eugenio Montale, da Ossi di seppia (1925)
[Fabio Sommella, Guerra e Pace: l’universo femminile, le genitorialità, le eredità eulturali, II Edizione, Amazon, Ottobre 2019, pp. 170-173 ]
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