Credo nell’operosità umana. Da bambino sono stato allevato nello studio e nel lavoro. Mio padre e mia madre, ma soprattutto i nonni, erano per me emblemi del lavoro operaio. Artigiani. Artisti. A modo loro, pur se non avevano studiato. Era l’etica socialista che, volente o nolente, mi pioveva addosso. Mi permeava. Di essa erano intrise tutte le nostre case. Le case che frequentavo allora. La mia, con i miei genitori. Quella del nonno paterno, che era stato ebanista, sorta di dio del legno. Lui dal tronco dell’albero – mi raccontava mio padre – produceva il mobile massello finito, armadio o letto che fosse. Con la precisione e la dovizia di disegni tecnici, appresi sul campo, nei laboratori di falegnameria, fin da bambino, all’età di cinque anni. Era cresciuto liì, lui; come Eduardo era cresciuto ai bordi d’un palcoscenico di teatro.
Mio nonno materno era un artista. Genuino. Pur se non ufficiale. Di mestiere faceva l’operaio galvanico. Sì, quello che si occupava delle vernici, nelle fabbriche di allora. Ma scriveva sonetti in romanesco. Li pubblicò pure sul Rugantino, nei primi decenni del secolo. Poi suonava chitarra e mandolino. Infine dipingeva. Paesaggi. Nei suoi quadri – un misto di colori tenui ben amalgamati – è sempre presente una casa, lontana, come un volto umano. È circondata da rigogliosi ambienti agresti. Sono i campi d’estate, o le lande innevate invernali. E poi c’è spesso uno specchio o un rivo d’acqua, che si scorge fra il verde dell’erba o fra le rocce, circondato da monti che – come la regola di Leonardo insegnava – trascolorano con la lontananza, tingendosi dei più mutevoli riflessi cromatici. Fino al cielo, quasi sempre celeste, solcato da ampie nubi bianche come panna, latte e come le fantasie dei bambini. Noi eravamo i suoi bambini a cui, negli ultimi anni della vita, dedicava i suoi quadri, quando non si metteva seduto sul pavimento con noi a giocare ai cowboy e agli indiani, con i nostri fortini e accampamenti.
Ero innamorato dei miei nonni. Da loro ho appreso il rigore, l’onestà, la rettitudine, come le squadre e i calibri che nonno ebanista impiegava per mettere in riga un pezzo di legno sbilenco. Così, da allora, credo nell’operosità umana. Più grande l’ho ritrovata nei poeti. Come cantava Leopardi? “Odi il martel picchiare, odi la sega / Del legnaiuol, che veglia / Nella chiusa bottega alla lucerna, / E s’affretta, e s’adopra / Di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.” Il sabato di quel villaggio che ci è entrato nella coscienza, attraversandone le soglie, sprofondando poi nelle viscere dell’inconscio, facendosi mito, origine di tante cose, forse di tutte le cose.
Tempo dopo – leggendo per mio conto la Costituzione, dato che, ai miei tempi, a scuola non era stato possibile – ho appreso che il nostro paese è una repubblica democratica fondata sul lavoro. E visto che studiavo e studiavo, tanto, e iniziavo a lavorare, il binomio è diventato inscindibile: studio e lavoro, lavoro e studio, nei decenni della vita, hanno costituito un binomio saldo, dove uno non contraddiceva l’altro ma semmai lo confermava, lo implicava. Studio come volontà e necessità di capire. Lavoro come necessità di operare, di fare, concepire e poi realizzare un prodotto. Prodotto finito dell’ingegno umano, dell’operosità umana. Che sia un prodotto materiale o un prodotto astratto, poco importava. Anche i beni culturali – lo sappiamo tutti, no? – non sono solo materiali; ne esistono anche di immateriali. E anche Antonio Gramsci elogiava lo studio, come una lunga e immane fatica, come un lavoro della mente, da non disdegnare ma a cui dare i suoi riconoscimenti.
Ciò che non comprendo è il parassitismo. Il pretendere di produrre valore dal nulla. O rubando.
Cerco di spiegarmi, seppure non garantisco.
Ho già detto che la mia etica è d’impronta marxiana?
Come si fa a creare valore da cose che non esistono?
Dall’aria fritta.
Dal fumo.
Dalle chiacchiere.
Potrei parlare della finanza, delle banche, dei derivati.
L’antropologia insegna che l’economia è lo studio che l’uomo fa per la gestione delle risorse che necessitano a vivere. Quindi: un rifugio, l’alimentazione, delle vesti, dei beni materiali. È l’avere biologico di Fromm, necessario a vivere per poter giungere all’essere.
La scienza con la tecnologia dovrebbero servire in quest’ottica: risolvere i quesiti dell’uomo verso la vita, semplificare le sue necessità di sopravvivenza, automatizzare le attività routinarie e ripetitive. Pensiamo alle catene di montaggio.
Anni fa – neanche troppi, certo meno di venti – tramite i primi Social fui convocato a una riunione da parte di un figlio d’arte. Pensavo per proposte artistiche. Giunto lì, fui accolto non dal figlio d’arte, che non c’era, ma da due suoi presunti amici. Gentilissimi questi, mi offrirono da bere, poi mi chiesero chi fossi e di cosa mi occupassi. Dopo i complimenti per i miei interessi e per le mie forme d’arte, entrammo nello specifico. Si occupavano di investimenti finanziari, piccoli o meno piccoli. Erano propositori di reti di relazioni economiche in cui, mettendo a disposizione un certo budget e procacciando altri aderenti alla rete, si “scalava” livello da un’iniziale base di piramide e, dopo qualche ulteriore passaggio, si aveva il diritto di beneficiare della somma totale, essendo giunti al vertice della piramide. E così via.
Io ricordai che, già diversi anni prima, colleghi di lavoro mi avevano illustrato marchingegni siffatti – l’aeroplano – meccanismi “facili” per “arricchirsi” in breve tempo.
Glielo dissi, ai due amici del figlio d’arte. Loro mi risposero che questo era un sistema nuovo. Al quale molti rinunciavano perché “Le mogli non sempre sono d’accordo!” Dissi che non credevo neanch’io in questi sistemi; che credevo nel lavoro, nell’attività umana, che fosse costruire un mobile o comporre una musica, non aveva importanza. Loro mi risposero che queste sono nobili attività ma che il futuro dell’umanità era nella direzione economica che mi avevano appena indicato. Era garantito.
Mi è tornato in mente in questi giorni, in cui sento parlare di criptovalute.
Cosa sono?
Basta dare un’occhiata per comprendere che si tratta di qualcosa che non mi interessa, anche se molti ne sono entusiasti.
E mi torna in mente la nostra Repubblica – democratica – fondata sul Lavoro.
Lavoro gabellato, deriso, malpagato, derubato, assente, disconosciuto, parassitato, camuffato. Lavoro irriso anche dalle AI del miliardario le quali, piuttosto che automatizzare le attività routinarie, creano, di certo pretendendo di scrivere meglio anche quanto state leggendo. Lavoro fantasma o sfruttato, che stranamente si moltiplica solo per pochi eletti con guadagni esponenziali, per gli eletti che ornano i propri CV di riconoscimenti, premi, pubblicazioni, traguardi che una vita intera non sarebbe sufficiente.
Carte false per accaparrarsi meriti, contratti, appalti.
“Povera patria / Schiacciata dagli abusi del potere / Di gente infame, che non sa cos’è il pudore / Si credono potenti e gli va bene…”
Sembra l’abbiano scritta i miei nonni!
Credo nell’operosità umana.
[Fabio Sommella, Giugno 2023]
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