Prese a raccontarmi delle sue donne. Io da principio gli dissi: «Dai, su, lo sai: conosco molto bene la storia della tua vita. Anche le donne. Ci conosciamo da tanti… troppi anni.»
«No. Queste cose tu non le sai. Non le hai mai messe a fuoco.»
«Si? Davvero?»
«Ne sono sicuro», rispose.
Così iniziò. «Perché vedi… le donne di cui mi sono innamorato…» Io l’ascoltavo. Camminavamo nell’aria della tarda mattinata sulla Piazza del Laterano. Il sole tiepido ci scaldava. Come pure le nostre idee. E il freddo di gennaio lentamente svaniva alla sua luce. Mentre il nostro parlare era fluente. «… hanno tutte un denominatore comune. Cioè: si somigliano.» Io annuivo. «Si somigliano non nell’aspetto, certo. Nei modi. Nei modi di pensare. E quello che mi ha affascinato in loro non è stato il loro carattere forte o vincente, non le cose in cui sono state brave. Sono stati… i loro fallimenti.» Lo guardavo. Mi interessava. «Mi sono innamorato dei loro punti deboli. Delle loro labilità. Dei loro lati oscuri. Dei silenzi. Dei loro Non detti. Si, già… perché in ognuno di noi poi c’è il Non detto.»
«Mica in tutti», dissi io. Volevo sdrammatizzare. Così aggiunsi: «Io per esempio parlo sempre tanto, che riempio la scena. Forse anche troppo.» Ma lui riprese, non curandosi delle mie facezie.
«Vuoi mettere la loro tenerezza quando – consapevolmente o meno – sorvolavano su un loro insuccesso. Sui tradimenti di cui erano state vittime. Quando mi dicevano delle loro delusioni. Più o meno mascherate. E manifestavano la loro insicurezza. Quasi scusandosi. Con l’interlocutore, ma principalmente con loro stesse. Mi parevano così ingenue. Vulnerabili. Come non proteggerle? Come non provare a proteggerle? Loro. Così fragili. Eppure così desiderose di sentirsi indistruttibili.»
«La coscienza della nostra vulnerabilità, di cui mi parlavi…», gli dissi tornando serio.
«Si, proprio così. E, in loro, ritrovo me. La coscienza. Quella che emerge fra un incontro: quello della verità con l’istanza tragica. Quella di ciascuno di noi. La verità è sempre rivoluzionaria. L’istanza tragica risiede nel più intimo di noi. Di noi stessi. Quella che è retaggio della nascita. Dell’educazione. Della crescita. Della famiglia. Della sua storia. Delle presenze passate. Ataviche. Di cromosomi corsari. Di influenze ancestrali. Spesso anche di traumi. Che succedono. Perché succedono i traumi, no?»
«Certo, purtroppo…». Ma poi tacqui. Perché vedevo anche lui tacere. Vidi il suo sguardo allontanarsi. Da quando non c’era più Aurora, aveva ripreso i modi e i ritmi dei nostri vent’anni. Con Eleonora. E poi con Adriana.
E infatti prese a dirmi: «Perché vedi… Adriana…» Rimase come in sospeso. Io ripensavo ai nostri vent’anni. A una sua certa Elisa, di allora. Con cui lui non era stato diverso da adesso. Da come è oggi. Nel segno del Non si cambia poi molto, nella vita. «Adriana non ha capito…»
«Cosa?», gli chiesi. Sapevo che, con Adriana, era finita da poco. Dopo le belle cose che lei gli diceva, che soprattutto gli scriveva. Sorta di liriche. Me le aveva fatte leggere.
«… lei non aveva capito che non volevo solo portarmi a letto una bella fica…» E mi guardò. Mi guardò con una specie di pudore sul volto. Come fosse un adolescente; un ragazzo che aveva detto qualcosa di sconveniente al suo Maestro dell’Anima. Però poi riprese. E stavolta era convinto. «Semmai con lei volevo provare a rimettere ordine. Ordine tra le macerie. E costruire. Costruire qualcosa di nuovo. Sulle ceneri. Macerie e ceneri di una vita. Macerie e ceneri della mia vita. Che aveva fiducia nella sua. In lei e nella sua vita. Nella sua persona. Tanto da farle tante confidenze… sprecate?» Ci guardavamo. «E per costruire qualcosa con lei, non servivano cliché. Non potevo usare luoghi comuni. La conquista. Serviva la verità. La verità rivoluzionaria. Che ho usato. Sempre.»
«Sempre?, chiesi.
«Sempre e solo quella», mi rispose. Mi pareva davvero triste, adesso. «Anche con Aurora», aggiunse. «Soprattutto con Aurora. Magari lei…»
«La verità. Rivoluzionaria.» Dissi io. «Che però… ha cozzato, è?»
«Con lei. Con la sua storia. Con la sua istanza tragica. Con loro. Con le loro storie. Con le loro istanze tragiche. Che non conoscevo, malgrado il tempo dedicato. Malgrado la vita in comune con Aurora. I decenni. E con Adriana, in quei dialoghi. Quelle intese. Quei silenzi senza imbarazzo. Ma… non le conosco. Non ho fatto in tempo a conoscerle. Non sai… quanto vorrei aiutarle. Avrei voluto aiutarle. Tutte. Devono aver sofferto tanto. Poverette.»
Adesso era confuso. Sperduto. Davanti alla Basilica mi strinse il braccio. Il cielo era sereno. Lui no. Lo guardai e lui anche mi guardò ancora. Con infinito affetto amicale. Il sole riverberava nei suoi occhi, che erano profondi e belli, come mai ricordo di averli veduti in tutta la nostra vita. Mi sorrise. Quindi di scatto si voltò, incamminandosi di fretta, tornando verso il centro. Provai a chiamarlo, a fermarlo. Ma compresi che non voleva. Aveva già attraversato la piazza, svicolando disordinatamente tra le auto. Era inutile. E forse ingiusto.
Non l’ho più veduto, da allora, il mio amico. Né si sa che fine abbia fatto.
Talvolta mi pare di sentirlo ancora parlare. Dentro di me. Parlare delle sue donne.
Le donne di cui si è innamorato.
FINE
[Fabio Sommella, 09-10 gennaio 2019]
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