Abir era sceso dal furgone. Era stato sballottato insieme ai suoi sette compagni di viaggio da Salerno a Roma. Per quante ore? Quattro? Cinque? Gli sembravano un’infinità. Gli avevano detto che quella era la stazione Termini. Era già in centro. Doveva raggiungere i suoi cugini, ai Monti Tiburtini. Ma prima, allora, voleva vederla un po’, quella città.
Quella era Roma? Si aspettava di arrivare alla stazione Tiburtina. Suo cugino Amur gli aveva detto che non era distante da casa sua, ma doveva prendere la metropolitana. A poca distanza avrebbe visto una grande strada in alto e, più in là, un grande cimitero. Monumentale, lo avevano definito. Ma di monumentale lui ricordava le rovine romane della sua Tunisia. Quelle a El Jem, a Sbejtla, dove era andato a far pagare le foto agli italiani, turisti distratti e allocchi che lì venivano a cercare un’altra Roma. E lui, che aveva vagato dalla città sacra ai deserti di sale fino alle oasi, per tornare sui litorali di Hammamet e Sidi Bu Said, non poteva scordare le impressioni di Cartagine. Il padre gli aveva raccontato che, quando c’era Ben Alì, era tutta un’altra cosa. Ma adesso… Allora aveva deciso di venire a cercare Roma e i suoi turisti a Roma. Coi suoi vent’anni, si sentiva forte e abbastanza furbo per sopravvivere: a quel nuovo viaggio, al mare, poi al caporalato e infine alla Capitale. Voleva vederla, questa Roma. Sì: coi cugini sarebbe andato a vendere calzini e libri in centro. Gli avevano detto che fuori alle librerie riesci a piazzare libri sul suo paese, se sei abbastanza affabile e cordiale. Devi dare la mano e chiamare tutti “Amico”. Poi sorridere, sempre. «Come facevo coi turisti allocchi che venivano a casa mia.»
Ora stava qui. Dove l’aria era pure densa di odori, col caldo di giugno. Chi aveva detto che a Roma non faceva caldo? Certo, non come nella medina di Sousse, quando bambino chiedeva alle turiste le sigarette e le penne tictac. Perché lui portava ancora nel naso gli odori dei suoi luoghi; quando le masse di carne erano lasciate appese fuori delle botteghe, al sole. Poi aveva visto la Sicilia. E dopo, di corsa, Salerno. Un po’ di pomodori, quanto basta per non morire di fame. Ma lui voleva arrivare qui, a Roma. Dove adesso camminava tra i marciapiedi affollati di gente chiassosa, i rumori, le voci, i clacson e le file di autobus. Con la giusta strafottenza del suo spirito ribelle. «Eccole, le prime rovine romane. Come si chiamano? Terme… Diocleziano… e guarda quella piazza, laggiù: enorme, con quegli spruzzi di fontane al centro. E quelle colonne attorno. Imbocco questa strada grande… Nazionale. Sembra quella del centro di Tunisi, quando rubavamo le borse. Certo, qui, quanto lusso. Eleganza.»
Cammina, Abir, cammina. Ci sarà un posto anche per lui? Il cugino Amur gli ha detto di sì. Lui, che sta qui da un anno, lo sa. «E io, son forte e bello. In queste strade, così grandi, troverò la mia nuova Tunisi o la nuova Kairouan.»
[Fabio Sommella, Maggio 2018]
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