Pensa così d’imporsi un rigoroso silenzio. Ce la farà mai? Lui, che ha sempre qualcosa da dire, qualche nodo da sciogliere, qualche aspetto da sviluppare. Glielo diceva anche Federica, quando c’era: «Ma quanto parli?» Poi, rivolgendosi a loro figlio, aggiungeva: «Ma quanto parla, papà?» Il bimbo li guardava, spalancando i suoi occhioni. Quindi sorrideva, gorgheggiando allegramente. E tutti e tre si perdevano in una risata globale, preludio al loro abbraccio. Infine lui li baciava entrambi sui capelli e andava di là, al suo tavolo di lavoro.
Una volta Federica però fu davvero astiosa. Appoggiata vicino al piano cottura, stava disponendo i piatti. Il bambino era nella sua stanza, dinanzi alla TV perché a quell’ora davano i suoi cartoni preferiti. Di cosa stavano parlando, loro? Di questioni mediche. Ma non riguardo a lei. Lei stava ancora bene, in quegli anni. Erano questioni biomediche. Reminiscenze dei loro studi giovanili. Lui chissà cosa aveva detto, istintivamente, senza alcuna intenzione di ferire. Federica si era fermata dal versare la pietanza e, dopo una pausa, aveva sentenziato: «Perché dietro alla tua scorza bonaria si nasconde la boria dell’intellettuale!» Bello, pensò lui! Bel motto. E bello – seppur acerrimo – il suo tono. Lapidario. Acido ma lucido. L’ammirava anche per questa capacità di penetrazione, la sua Federica. Dolce e aspra al contempo, sempre, nella vita. Generosa come nessuna persona che lui avesse conosciuto. Per questo se ne era innamorato, decenni prima: perché, con lei, poteva essere come lui davvero era, senza resistenze o finzioni di sorta. E questo riteneva fosse vero anche per lei.
Lui, a quelle parole e a quel tono, si era messo a ridere. Perché? Ma perché non credeva autentica la rabbia di sua moglie. Con tenerezza, poi, l’aveva guardata. Si era alzato, avvicinandosi a quella marmocchietta spaurita e inviperita. E l’aveva abbracciata, vincendo a poco a poco la sua iniziale ritrosia. Si erano chiesti scusa reciprocamente. E si erano persi, infine, nei baci e nelle carezze, comprendendo e accettando i limiti l’uno dell’altra. Come natura vuole. Come è giusto che sia.
Adesso lui è qui. Dopo un tempo indefinito – definibile, certo, ma per la coscienza questo tempo è altro. Altro ancora, che si dispiega nell’interiorità. L’interiorità degli anni flagellati da corse frenetiche dietro a malattie dapprima definite pressoché innocue – «Una cisti grossa e fessa», «Io opero solo tumori maligni», «Ho tolto cisti di ventotto centimetri» – poi, inspiegabilmente, gravi. Speranze apparse all’orizzonte, baluginanti nelle tenebre di notti trascorse alla luce fioca in stanze insonni, tra preghiere e lancinanti dolori all’approssimarsi dell’epilogo. Implorazioni e inviti, di lei, ad accoltellarla, per metter fine a quel supplizio. Lui, che la guardava con tutto l’amore del mondo, le chiedeva «Come potrei?» Quando i giorni andavano via confondendosi con le notti. Confondendosi con la filiera di medici, oncologi e chirurghi di quei due anni. Quando non c’era più tempo. Non c’era più tempo per terapie – quali? – non c’era più tempo per considerare quelle cellule malate un sistema e non un punto biochimico da aggredire con un chemioterapico. Non c’era più tempo per disquisizioni biomediche.
Adesso, ancora al suo tavolo di lavoro, pensa. Pensa a questa nuova potenziale lei. Che carpisce la sua attenzione. Se in passato – c’era Federica, allora – lasciava che ogni parvenza e sembianza femminili lo lambissero appena e scivolassero via, come una sommessa onda musicale, pur gradevole nel sottofondo, ora è ricettivo a ogni fonte, a ogni nuova vibrazione. Così resta in ascolto. E gli piacciono, le parole di questa nuova lei. Gli piacciono i suoi toni, lievi. I suoi modi. Il suo stile. E al pensiero sorride. Perché, gli han detto – parole di una recente lambente – anche le sue espressioni sono divertenti. «E», si chiede, «chissà se anche la nuova lei gradisce.» Sa che non deve esagerare, con questi suoi modi. Con questo suo entusiasmo. «Silenzio, silenzio», gli aveva detto il suo migliore amico, aggiungendo poi «Dovresti andare in un monastero cistercense, a osservare le regole della quiete dell’animo.»
Il silenzio. Lui che crede nella parola. Lui che crede nel dire, nello sciogliere, nello sviluppare. Nell’accrescimento delle nostre consapevolezze e delle nostre intuizioni. Nell’insight. Preludio alle profondità del cosmo. Attraverso la parola, che è elemento d’indagine liberatore dalle paure ataviche, dalle bugie. Quelle che aveva anche Federica. E a questa nuova lei vorrebbe dire ciò. Chiederle scusa per le sue troppe parole, dette o scritte. Vorrebbe – come mimava il suo amico d’infanzia Pippo Golasecca – rapirla sulle ali d’un turbinoso vento. E – dopo aver ancora indugiato nell’autoironia del suo vecchio amico Goofy proferendo sornionamente un «Soalve a Tuuutti, cari amici!» – portarla infine in un tramonto sul Lungosenna. Lì, in silenzio, tra le torri di Notre Dame e le case del Quartiere Latino, guardarla negli occhi. E perdersi – ancora, oggi come ieri – nelle luci e nelle tenebre della donna amata.
Come farà a dirle ciò? Come potrà chiederle scusa?
Naturalmente con un racconto.
[8 luglio 2018]
In sottofondo, se è abilitato il toggle, Mantra in ReDoSolRe, composto ed eseguito alla chitarra dall’autore stesso.
Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 2.5 Italia (CC BY-NC-ND 2.5 IT)