Era lì, ascoltando il suo tempo. Era lì: anomalo, atipico, asfittico, acefalo… attendendo un resoconto. Un esito. Un capitolo. Di fine o inizio. Una chiosa o un nuovo incipit. Verso una nuova fase.
E si ricordò di quella canzone.
Musica?
Si, per lui musica.
In che misura le canzoni – pop, popolari, o similari – sono unicamente “canzone“ propriamente detta? O, viceversa, diventano musiche?
Era lì. A lavare i piatti, nel dopo prqnzo. Cioè – meglio – a prepararli e a detergerli nella lavastoviglie, che finalmente – dopo quanto tempo? – aveva appreso a usare. E gli sovvenne quella canzone, quella musica.
Al di là delle parole – si, vero, da bambino privilegiava le parole sulla musica, tanto che quando seppe che Lucio Battisti era autore delle musiche e Mogol delle parole, fu deluso – gli piaceva la musica. Si: quel “Non c’è più niente da fare, è stato bello sognare…” era – al di là delle parole, simpatiche – principalmente musica. Si: musica. La musica – bellissima, fantastica – che chiudeva – in coda – un altrettanto bellissima e fantastica serie TV di Totò – nel fine inverno ’66 e inizio primavera ’67 – in cui l’anziano attore si cimentava, secondo lui, in performance simpatiche e umane in una Roma – solo Roma? – o anche in un’Italia che, a lui, era – erano – familiari, consuete, note, non estranee.
Gli sembrava, a tratti, di rivedere il suo amato nonno, morto pochissimi anni prima.
Era – abbiam detto – inizio ’67. E il 15 aprile, del medesimo anno, il grandissimo attore – parte/nopeo e parte/napoletano ( 😊 !!! ) – spirò.
Tanti anni dopo – invero troppi – seppe che, in quel medesimo giorno dell’anno – il 15 aprile, anno più o anno meno – erano nate, o sarebbero nate, alcune persone a lui carissime. Tra cui la sua futura moglie (unica, fino ad allora, nella vita). E anche un suo carissimo amico. E anche altri e altre cari/care amici/amiche d scuola. Insomma: il mese di aprile, e in particolare il giorno 15, era e sarebbe sempre stato per lui un giorno caro, fausto, ameno, adorabile, simpatico, amato.
In quel giorno ci lasciò – lasciò il Mondo – anche il principe Antonio De Curtis, in arte Totò: a detta di Nino Manfredi, l’ultimo erede della Commedia dell’Arte.
Quale tenerezza?
Quale commozione?
Uno dei più grandi – sommi? – artisti teatrali del ‘900 muore il medesimo giorno in cui sono nati alcuni dei suoi più grandi affetti della vita!
“Non c’è più niente da fare. È stato bello sognare. La vita ci ha regalato tanti momenti felici qualcosa che il tempo non cambierà mai.”
Così cantava e musicava Bobby Solo, forse uno dei più grandi – certo, Tenco a parte, in quanto davvero aspetto peculiare nei ‘60 – musici leggeri di quegli anni ’60, epoca in cui lui era davvero bambino e la canzone – ancora prematura rispetto a quella che sarebbe divenuta canzone d’autore nei ’70 – assumeva facciate e sembianze volutamente più leggere e ironiche, senza pretese intellettualistiche.
Occhio: che la canzone d’autore dei’70 e prima metà ’80 fu davvero maestosa, profonda e rivoluzionaria!!!
Poi cosa accadde?
Accadde che la leggerezza del “Non c’è più niente da fare”, scomparso Totò, la sua verve e la sua ironia sul quotidiano – “E poi dici che uno si butta a destra…” – si tramutò, nel ’68, nel meraviglioso e prorompente, dissacrante e caustico “Vengo anch’io? No, tu no” del grandissimo Enzo milanese, amico d’infanzia di Giorgio Gaber, nonché JaGa brother. Si: quello che, qualche anno prima, aveva partecipato a La vita agra di Bianciardi/Lizzani e, qualche anno dopo, avrebbe cantato la fabbrica di Vincenzina nel Romanzo popolare di Mario Monicelli, con un’accattivante Ornella Muti e i due rivali – grandissimi, il vecchio e il giovane – Tognazzi/Placido. Jannacci – erano i tempi di Messico ’70 – cantava “Queste son situazioni di contrabbando… tarataratarara … ma il matrimonio non si può più. Messico e nuvole. Guardo l’America. Il vento suona la sua armonica. Che voglia di piangere ho.”
1970: alla TV, alla domenica sera, nella Domenica Sportiva, al suono e al canto della canzone del cantore delle osterie dei milanesi navigli, facevano da contraltare i volti e le immagini dei calciatori “messicani”. Spiccava Gianni Rivera, abbatino (era questo l’appellativo che gli aveva affibbiato Gianni Brera) col sombrero variopinto – seppure la TV allora fosse B&N, si evinceva ugualmente il colore – che sembrava un ragazzino delle elementari che voleva giocare con se stesso e con tutti noi, oppure un liceale che – malgrado le contestazioni post-sessantottine, anche in TV, in quello scorcio di ’69-’70 – riteneva giusto e corretto giocare, placidamente e pacatamente, con la propria immagine di benevolo fortunato ragazzo prodigio. Qualche giorno dopo, successivamente alle scialbe qualificazioni con l’unico goal di Domingo contro la nazionale di Svezia, l’abbatino golden-boy nazionale avrebbe esaltato sé stesso – pur dopo la ritenuta (da qualche compagno di squadra) debacle sulla linea di porta, al fianco ad Albertosi, in corrispondenza del tre a tre germanico a opera di Gerd Muller – e commosso il Mondo tutto – ma non c’era necessità, essendo lui stato indubbiamente il più grande numero dieci, e non solo, del dopoguerra!!! – con il meraviglioso goal del quattro a tre alla Germania. E fu Storia (!!!), in quanto, dopo l’obbligatorio palla al centro del tre pari, il tedesco non toccò palla.
Estate del ’70; stadio Azteca di Guadalajara. Vista in diretta, in notturna italiana; ore due circa del mattino.
Toni epici: Ettore sconfigge finalmente Achille. Ulisse non solo sconfigge i Proci ma si riappropria della sua identità e recupera i suoi compagni contro il Ciclope. La Russia di Kutuzov sconfigge la Francia napoleonica. Davide abbatte Golia, gli eredi di Federico II sconfiggono gli angioini e la storia d’Italia prende altra piega…
Qualche anno dopo – pur successivamente alla ancor più epica vittoria al Nou Camp di Barcellona, in Spagna nell’anno ’82, ad opera di Paolino Rossi e compagni contro il Brasile di Paulo Roberto Falcao & Co. – nel 1986 il Messico non avrebbe portato altrettanti onori agli azzurri, sempre di papà Bearzot, Paolo Rossi & Co.: infatti il sombrero di Pablito, contrariamente a quello dell’abbatino Gianni Rivera sedici anni prima, non avrebbe sortito i medesimi effetti benevoli e benefici. Così la nazionale italiana avrebbe deflagrato contro quella francese di Michael Platini.
Ora: cosa c’è in tutto ciò?
Il Più niente da fare! Ovvero il combattere la propria battaglia contro la morte come sia l’ultima.
Il Messico e nuvole che, la prima volta, ti esalta. Quando? Ma quando combatti la tua battaglia come fosse l’ultimo momento della vita, come ci insegna don Juan, maestro sciamano di Carlos Castaneda.
Ancora, anni dopo o in quegli anni, il medesimo canto dell’Enzo milanese sarebbe stato soundtrack dello Sciopen – meraviglioso apologo sul potere politico e clientelare, nostrano, italiano (forse non solo) – di Luciano Odorisio, in una Chieti primissimi anni ’80, emblematica provincia dell’italiano malcostume e arte dell’intrallazzo. Non ci sarà Ornella Muti, con la sua Vincenzina e con la sua fabbrica, ma una Giuliana De Sio altrettanto seducente e, ancora, un Michele Placido in un personaggio di truffato maestro della vita.
Si riscosse. La lavastoviglie era stata caricata. Aveva terminato il suo ciclo. I suoi pensieri erano terminati. Il suo scritto anche. In testa gli rimanevano quei canti e quelle musiche – tutte – con le simpatiche immagini – umane – di Totò, dei ’60-’70 che non poteva dimenticare, delle gesta – epiche?!? – allo stadio Azteca di Guadalajara. Di quei film. Di quei canti.
Di quelle musiche.
Era tranquillo.
Perché sapeva che, adesso, non c’era più niente da fare, tra Messico e nuvole.
[17 agosto 2018]