In una galassia lontana lontana, pianeti. Nell’apparente indifferenza del cosmo. Li incontrava, sfiorava, lambiva, anch’essi a loro volta indifferenti. Poi viene attratto dalla forza di gravità di uno. No: forse non é adatto ad atterrare. Così abbandona l’area. Ma quello lo invade, si, con le proprie perturbazioni. E lui si lascia infine attrarre. E scende: da sé, dal passato, dalle sue memorie, che sono lui, la sua identità. E lì scopre inesplorate bellezze. Egli, incredulo, osserva inattese amenità. Che sgomentano, anche. E gli sembra impossibile. Come Gagarin, ha scansato con il piede bugie e volgarità. E, con il piede leggero, cerca di procedere, attento a non deformare quel suolo. Un suolo che avverte forte ma al contempo fragile. Perché poi, al buio d’un giorno, inciampa. Sono le sue pregresse disperazioni. E precipita. Una pioggia di meteoriti si abbatte su di lui. E su quel benevolo suolo, che lo aveva accolto naufrago come Nausica a Ulisse.
C’è un tempo per incontrarsi e un tempo per partire. Ora è quello. Risale. Accende il motore. Decolla. S’allontana. Torna nell’indifferenza del cosmo. Tra le galassie. I mattoni dell’universo.
Ora si chiede se quel pianeta sia mai esistito.
Che non sia pianeta bensì satellite? O buco nero?
O che sia l’isola, quella che non c’è, di Edoardo?
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