Ogni periodo della vita ha la sua soundtrack. Quello aveva le arie musicali di Hans Zimmer e Klaus Badeldt. Prima e dopo. Era come se, quella colonna sonora, avesse avvolto gli eventi miei, di Aurora e di Emanuele. Insieme a quelli dei nostri fratelli e nipoti.
Un periodo ancora relativamente felice. Si, perché il ricordo dell’aborto spontaneo era di tre anni prima. E ormai era stato – se non dissipato – certo sufficientemente integrato. Dal momento che era stata una fase davvero dura, quella. Una vera botta. Ci eravamo attaccati a quella nuova creatura, dopo le iniziali reticenze. Si stava formando nel grembo di Aurora. E quando l’ecografia fetale indicò che lo sviluppo si era fermato da due settimane, fu la sera più dura della nostra vita. Per la prima volta, per me e Aurora, Emanuele non era la persona più importante del mondo: perché in quel momento la nostra attenzione andava al fratellino che sarebbe dovuto essere e non sarebbe stato più. I crudi rituali ginecologici sancirono poi la definitiva chiusura per quel nuovo progetto di vita. La mannaia era calata. Inclemente.
Ma adesso erano trascorsi tre anni. A Roma era una tarda primavera caldissima. Stavo completando un importante progetto di lavoro, insieme al collega del commerciale: il nostro principale cliente avrebbe rinnovato tutta l’infrastruttura di monitoraggio dei sistemi e dei servizi. Era un traguardo di rilievo, per me. Lo avvertivo come una sorta di Everest professionale. Ci avevo lavorato nei tre anni precedenti; da quando mi ero trasferito nella nuova azienda.
Quella mattina avevamo presentato il programma anche all’Esercizio del cliente. Tutti felici e soddisfatti. Anche il mio capo. Sempre dubbioso, in quell’occasione mi disse “Eccellente, eccellente davvero.”
Concluso il meeting, mi aveva contattato il fornitore. Era in ascolto anch’egli. Su tutto il progetto. Il loro commerciale mi aveva confermato l’invito al Forum Internazionale: quell’anno si sarebbe svolto negli States, a Chicago. Ebbi subito l’OK, dei miei due capi: quello dell’ufficio e quello di casa. Sì, perché anche Aurora ne era entusiasta per me.
Così, di lì a pochi giorni, fu un nuovo volo intercontinentale. Air France. Prima Roma-Parigi, poi Parigi-Chicago. E fu Michigan Avenue, con il grande lago omonimo. Con le sue brezze e l’aria mite. L’Hilton. Il lussuoso Drake. E poi l’House of Blues. Il megastore della Disney, per acquistare i protagonisti di Toy Story 2, da portare a Emanuele e a mio nipote più piccolo. Giorni anche di lavoro, al Forum, certo. Ma – in effetti – relax. Vero e proprio. Un’ intensa vacanza. Le bistecche well done. Insieme ai colleghi delle altre società. E le Sears Towers. Certo: l’atmosfera sospettosa in America, ora… l’11 Settembre sembrava l’altra settimana. Che differenza rispetto a quando c’eravamo stati io e Aurora nel ’96! Ma la cena, a quel novantesimo piano, su quel grattacielo… Chicago notturna.
Poi il ritorno. Con la perdita dell’aereo, quel venerdì. Quasi incredibile, ma il traffico dell’esodo fino all’aeroporto… neanche in agosto al casello di Mercato San Severino! Giungemmo che il check-in era chiuso da alcuni minuti. Con tutti i bagagli dovemmo tornare a fatica in un hotel. Grazie ad Air France, scoprimmo che un’altra notte all’Hilton non era poi troppo costosa. Subito dopo – lì da noi pomeriggio, a Roma notte fonda – comunicare ad Aurora “Abbiamo perso l’aereo. Torniamo domani.” Lei, giustamente, da principio era incredula. Quando lo comunicò ai miei genitori, mio padre – ma che gli passava per la testa? – mise un carico da undici: “Non si sarà trovato un’altra?” Così le chiese. “Beh, domani lo sapremo”, gli rispose lei, abbastanza indispettita. “Siete quattro coglioni”, invece disse la moglie al marito, uno dei miei compagni di viaggio.
Il ritorno, il giorno seguente, fu in prima classe. L’amico dell’Air France aveva cercato di riparare, intercedendo per farci stare almeno più comodi.
A Roma ritrovammo un caldo tropicale. Aurora era all’aeroporto che mi aspettava. Subito fugò ogni eventuale dubbio. Ma l’atmosfera, tra lei e i miei, era divenuta non facile. Erano sorte altre piccole-grandi complicazioni. Per fortuna il tutto tra loro sembrò normalizzarsi nei giorni successivi.
Anche al lavoro, poi, ebbi conferma delle riletture storiche. Strumentali a certi fini. Il mio capo ufficio infatti – chissà per quale moto d’invidia? – bollò la nostra presentazione. In pochi giorni era divenuta un qualcosa di mediocre e disdicevole. Ma questa è un’altra storia, che attiene alla miserie umane.
Arrivata la piena estate, insieme ai nostri fratelli raggiungemmo la casa nel Salento che avevamo affittato mesi prima. Gallipoli. Lungo viaggio automobilistico. Strade anche impervie, allora. Raccordi non sempre agevoli. Ma pervenuti a destinazione, la magnifica isola. E poi le escursioni. Otranto. Lecce, Firenze barocca.
Con i bambini piccoli – nostro figlio e nostro nipote, il secondogenito di mio fratello – i pranzi fuori erano sempre da Mc Donald. “Ma non sarebbe preferibile un ristorantino di mare?”, domandava sornione mio nipote grande. Io con mio fratello, ovviamente, gli davamo man forte. Ma le due mamme e la nonna non cedevano: dovevamo accontentare i due piccoli della famiglia.
Accadde allora – erano gli ultimi giorni di vacanza e gli ultimi giorni di agosto – che mio nipote grande desiderasse vedere Pirati dei Caraibi: la maledizione della prima luna. Era uscito proprio da pochissimi giorni e lo proiettavano nel cinema centrale di Gallipoli. Fu così che lui e io – il suo vecchio zione – ci andammo.
Era lo spettacolo del secondo pomeriggio. Rimanemmo affascinati. Certamente dai personaggi della classica avventura – il canagliesco capitan Jack Sparrow, la fascinosa incantevole Elizabeth, il romantico eroe Will Turner, il pretendente Commodoro, il gaglioffo Barbossa – ma la musica, ah la musica! Suadente. Iniziò a suonarmi dentro. Ad estendersi. Abbracciando quei giorni, ma non solo. Perché avvolse ciò che era stato anche prima. E ciò che sarebbe stato, anche dopo.
All’uscita dal cinema, ovviamente, io e mio nipote non tornammo a cena a casa. Ci recammo – finalmente, senza intralcio alcuno da parte dei mocciosi – a un vicino ristorantino. E stavolta, giustamente, furono: risotto alla pescatora, frittura di calamari e vino bianco. I famigliari ci raggiunsero poco dopo. C’era, fra tutti noi, un’aria divertita. Di leggera complicità e compiacimento. Che bello! E che bello stare in famiglia. Con la moglie che comprende e sorride nascostamente. Con i propri figli, fratelli, nipoti. E – perché no? – anche con la suocera!
Di lì a breve, furono le nozze d’oro dei miei genitori. Era il tre di ottobre. Ricordo mia madre, emozionata come una bambina. I rapporti tra Aurora e loro erano tornati discreti, anche se Aurora non era del tutto serena. Quel giorno fu l’occasione per rivedere degli antichi cugini di mia madre. Rammento i racconti di uno di loro. Racconti della guerra, del fascismo. Un’aria amicale si spargeva ovunque, fra tutti noi. Dal terrazzo dei miei genitori e tutt’intorno, fin lontano. Nello spazio e nel tempo. Fu una bella giornata. Una magnifica ottobrata romana. Dapprima a San Giovanni in Porta Latina. Poi sulle colline dei Castelli, sotto Rocca Priora. Guido, il Molisano con la sua Nuova Pineta, fecero degna corona.
Un giorno di sole. I pirati dei Caraibi suonavano con noi.
Giorno di sole che a fine mese fu offuscato. Ero ad un corso fuori Roma, in Abruzzo, in procinto di tornare. La sera prima al telefono avevo sentito mia madre. Chiesto di mio padre. “In giro, come sempre”, mi aveva detto lei. “Sai, mamma, stasera ceniamo con colleghi del corso. C’è anche il direttore del personale”, le dissi io. Mi salutò con affetto consueto. Lo avvertivo, al di là del filo. “Bevi poco!”, mi disse benevola.
Furono le ultime parole che potei ascoltare da lei. Almeno in questa vita. Il giorno dopo, durante il viaggio di ritorno, seppi. Ero sul bus navetta: “Tua madre deve ancora svegliarsi”, mi aveva detto Aurora quando l’avevo chiamata. Mamma era stata ricoverata la mattina: un’improvvisa perdita di coscienza. Mio padre non connetteva e non aveva avuto il coraggio di informarmi. Aurora mi venne a prendere al capolinea del bus. Ci recammo insieme all’ospedale. I medici non capivano. Mamma venne trasferita a un centro più idoneo. Ma non fu possibile più nulla. Pochi giorni – le notti di assistenza, noi, lei in coma – e tutto finì.
La morte dell’universo?
Sì. Così.
Perché non conoscevo ancora l’abbandono – definitivo – della compagna d’una vita. Solo altri tredici anni dopo.
Ma anche questa è un’altra storia. Mentre i pirati dei Caraibi avevano terminato di suonare la loro soundtrack.
FINE
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