Malgrado la precoce morte di Raffaello (1520) e il successivo passaggio di Michelangelo alle sole architettura e scultura, dopo le pur maestose esperienze negli anni ’30 e ’40 del Giudizio Universale nella Cappella Sistina e delle probabilmente già meno convinte, nell’intimo del Maestro, imprese pittoriche nella Cappella Paolina, in Italia sono proprio i due suddetti Maestri a esercitare ruoli di capiscuola nella pittura del XVI secolo, ovviamente parallelamente al prolifico filone veneziano che, partendo da lontano con il Giambellino e Giorgione, proseguiva con Tintoretto e soprattutto Tiziano Vecellio, senza dubbio l’artista veneto più internazionale.
Osservando l’ampia produzione del periodo che va dagli anni ’30 fino al termine del secolo (ma anche oltre), è possibile trovare una pletora di pittori, seguaci di volta in volta delle acute linee introspettive ma aggraziate di Raffaello o delle plasticità spaziali di Michelangelo, epigoni che, diversamente dalle più genuine ricerche e sperimentazioni del secolo precedente, cercheranno di dipingere “secondo maniera”, come prigionieri di una sorta di obbligatoria adesione agli schemi pittorici, espliciti o impliciti, attribuibili a Raffaello e a Michelangelo, pur spesso influenzandosi scambievolmente.
Il tragico episodio del Sacco di Roma, del 1527, fungerà per certi versi da crocevia e spartiacque, nonché da diaspora degli artisti che erano cresciuti nelle botteghe/scuole, comunque a fianco, di Michelangelo e, probabilmente ancor più, di Raffaello. Da quest’ultimo prenderanno origine numerose “filiazioni”, potremmo dire a più livelli generazionali; tra le maggiori: senza dubbio quella di Giulio Romano, che svolgerà un’importante esperienza, architettonica e pittorica, nel Palazzo Tè di Mantova.
Ma fondamentale anche quella di Perin del Vaga che, dopo esperienze estere a Fontainebluau, sarà prima nel Palazzo Doria di Genova e poi di nuovo a Roma nella Sala Paolina di Castel Sant’Angelo.
Lo stile e i modi di Michelangelo si rintracceranno viceversa a un primo livello in Sebastiano del Piombo e in Daniele da Volterra, quest’ultimo tuttavia anche vicino a Perin del Vaga.
Entrambe poi queste prime due generazioni, raffeaellite e michelangiolesche, genereranno a loro volta, tuttavia in modo forse sempre più rigido e meno ispirato, una seconda generazione; da Giulio Romano e Perin del Vaga “discenderanno” tra gli altri Francesco Salviati e lo spagnolo Pedro de Rubiales.
Daniele da Volterra influenzerà Pellegrino Tibaldi e lo spagnolo Beserra.
Il risultato sarà una ulteriore diffusione esponenziale delle maniere originarie ormai tendenti a cristallizzarsi nelle due anime pittoriche principali (analogamente alle due anime architettoniche, quella sobriamente classicizzante della Villa Giulia di Jacopo Vignola e l’altra archeologizzantemente classicizzante, fino all’ermetismo, della Villa d’Este di Pirro Ligorio).
Le tendenze di una pittura che, almeno a certi osservatori, sembrerà davvero divenuta nebulosa e imitativa, priva di senso vitale, dai toni e colori freddi, privi di passione e genuina bellezza (spesso pur ricercata vanamente), appariranno schiarirsi e rivitalizzarsi solo verso la fine del secolo quando, a dispetto dei vanesi classicismi di maniera, faranno comparsa, rispettivamente in area bergamasca e bolognese, due tendenze nuove: quella definibile “psicologismo naturalista” di Giovan Battista Moroni e quella forma di paesaggismo, seppur non inedito ma comunque ora maggiormente esplicito, delle lunette aldobrandini di Annibale Carracci, forse gli aspetti artistici più originali della omonima famiglia bolognese.
Alcuni di questi motivi si ritroveranno nella pittura di Nicolas Poussin, nelle plastiche caratterizzazioni introspettive della Morte di Germanico, e nel morbido paesaggismo di Claude Laurin.
Sarà in questo clima di maggior essenzialità stilistica ed espressiva, accentuato dal recupero di opere di autori parzialmente isolati e minori della prima metà del secolo dell’area lombardo/padana quali Lorenzo Lotto, Moretto (la cui Ultima cena è un autentico omaggio a Leonardo) e Savoldo, laddove Roberto Longhi fa risalire alcuni modelli addirittura al Foppa della Crocifissione, che maturerà repentinamente il profondo e baluginante naturalismo psicologico di Michelangelo Merisi, il Caravaggio.
[Fabio Sommella, 28 settembre 2012]
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