Dal web del telefonino – come fosse una vecchia radio – aveva riconosciuto l’inconfondibile incipit, le note iniziali di quella canzone di Francesco: l’aria di valzer in stile settecentesco. Inevitabilmente gli tornarono in mente quei giorni. Che periodo era? Fine estate dell’84. Forse i primissimi giorni d’autunno. La stagione in cui, a Roma, la luce della sera permane ancora dolce, leggiadra e rossa, parzialmente lunga, come le “sere d’estate che non voglion morire”, sempre quelle di Francesco.
Con lei e un’altra coppia d’amici erano stati allo Zodiaco, a rimirare le anse del Tevere e la città più lontana, dalle altezze di Monte Mario. Tornati a casa si eran fermati a cena da Cocco, alla Circonvallazione Appia. Di fuori, sul marciapiede, a uno di quei tavoli che sapevan tanto di osterie d’una volta, quelle della sua infanzia. Adesso erano le “aperte osterie di fuori porta”, eternamente sospese fra la sua Roma e la Bologna del suo amico cantautore.
Lei indossava quel vestito di seta, color turchino, che gli piaceva tanto. Le fasciava i seni e scendeva giù, in tono lungo i fianchi. Camminando lasciava intravedere di tanto in tanto le belle gambe. E, così, tutto il suo corpo contrastava gaiamente con il biondo dei suoi lunghi capelli, in un’allegra armonia di echi e accenti contrapposti.
Chissà perché si eran messi a parlare di canzoni. Ed eran venuti proprio in argomento di questa canzone. E lui, allora, – istrione in erba – si era addentrato in un’analisi critica del testo e del suo significato. E si era accorto – forse per la prima volta – di come, quella canzone, fosse metafora, avesse un duplice significato: Venezia che muore, Stefania ventenne che muore in quel “letto sudato d’un grande ospedale”.
Stefania, vent’anni, come lei in quei giorni.
E glielo aveva detto a lei e a quegli amici: duplice significato, Venezia, muore, Stefania, muore, letto sudato, grande ospedale… lontani parenti, un giorno lontano.
Adesso, riascoltando, l’amarezza lo prendeva. Un groppo in gola. Sì guardò nello specchio, mentre si faceva la barba, e capi quanto il tempo fosse sempre – ognora, tutt’ora – inclemente. Così, come nel romanzo di Mason, quando il vento sciupava “quei fiori, ché non sapeva leggere”, cedette: le lacrime non poterono esser trattenute e inondarono, oltre gli argini.
[4 agosto 2018]